Uno dei punti sui quali si può e anzi bisogna sperare che l’attuale governo Prodi lasci fare alcuni suoi componenti che hanno buone idee e proposte concrete, è quello dei servizi pubblici locali. È ovvio che mi sto riferendo al disegno di legge, a doppia firma, di Pierluigi Bersani e di Linda Lanzillotta, approvato dal Consiglio dei ministri lo scorso 30 giugno e venuto al centro, in questi ultimi mesi, di aspri confronti tra governo, sindaci e ala radical-antagonista della coalizione. In sintesi, vediamo prima di ricordare con qualche dato il peso del settore nel nostro Paese; poi di richiamare come agirebbe un soggetto politico fortemente liberalizzatore, in senso antistatalista. In terza battuta, richiamiamo invece l’importanza dell’impostazione Lanzillotta-Bersani, che adotta una strategia diversa, più “fine” e “machiavellica”. Infine, aggiungiamo qualche considerazione su un punto al quale neanche i due ministri riformisti hanno forse pensato fino in fondo, e che potrebbe risultare di una certa importanza per superare l’impasse.
I servizi pubblici locali, a 15 anni dall’avvio della ritirata dello Stato dall’ambito dei servizi pubblici a livello nazionale e dall’apertura al mercato di settori come le tlc e l’energia, continuano a rappresentare un’isola infelice di statalismo non concorrenziale. La fotografia più aggiornata è quella che si desume dall’indagine Confservizi sui bilanci 2005 delle 891 società di capitale attive nei servizi pubblici locali italiani.
Il mercato e l’efficienza
Partiamo da un dato che da solo dice tutto: in soli 4 anni, sono più che raddoppiate di numero, visto che erano 405 nel 2001. A conferma che il “socialismo locale” si è esteso, in ragione della convenienza a esternalizzare nel bilancio di società controllate oneri e perdite, oltre che magari assunzioni e clientele, nonché a equilibrare la natura composita delle coalizioni amministrative attraverso il proliferare dei posti nei cda.
Se le 8 grandi imprese locali di servizio pubblico quotate hanno comunque rappresentato un’iniezione di solida efficienza gestionale imposta dal mercato per una quota che da sola rappresenta il 33% del fatturato complessivo nazionale e il 35% del patrimonio del totale delle utilities comunali, quanto a controllo proprietario non c’è da illudersi: il 73% delle 891 società è ancora interamente in mano all’ente di riferimento, e nel 65% della restante quota di società miste, la proprietà pubblica resta largamente maggioritaria. In altre parole, sul totale delle utilities locali la quota nelle quali l’ente di riferimento ha accettato di avere una partecipazione minoritaria tocca a mala pena l’8%.
Molte sono le considerazioni economiche che discendono da questo quadro.
L’emergenza Mezzogiorno
Permane una diffusa emergenza Mezzogiorno, visto che ben 174 utilities meridionali registrano un ROI (il rapporto tra risultato operativo e capitale investito) negativo, con quasi 100 milioni di euro di perdite d’esercizio complessive. In regioni come la Campania, l’emergenza è da virtuale fallimento per decine e decine di società.
Naturalmente, bisogna distinguere da settore a settore. Le multiutilities bilanciano meglio i ricavi rispetto a minor oneri di servizio pubblico. Le monosettore più sono piccole e più stentano. Le energetiche se la passano meglio. Quelle del trasporto locale e dell’edilizia residenziale sono in crisi pressoché strutturale, con costi del personale – al di là di ogni investimento e ammortamento – che da soli eguagliano o superano i ricavi totali.
Quanto alla concorrenza, le multiutilities nelle grandi realtà metropolitane hanno la forza di intercettare, pressoché integralmente, ogni ambito lasciato libero dagli ex monopolisti nazionali. I consumatori hanno una libertà di scelta praticamente nulla, poiché le fette di mercato tra oligopolista locale e nazionale sono spesso determinate ex ante dalla cessione di tratti di rete distributiva dal soggetto nazionale a quello locale per effetto delle leggi Bersani di 10 anni fa. Quanto alla trasparenza sull’efficienza e la qualità dei servizi resi, al consumatore che avesse voglia e capacità non resta che spulciare le relazioni di bilancio delle partecipate locali: potrebbe constatare che nella stragrande maggioranza dei casi esse sono lacunose, vanificando il diritto all’informazione e al controllo da parte dei cittadini.
Cosa spetta al legislatore
Come agirebbe un legislatore fortemente liberalizzatore, per incentivare l’ente locale a dismettere la veste di controllore delle società di servizio e ad aprire il mercato? Come si tentò invano di fare con la finanziaria 2005. L’allora ministro Tremonti provò a proporre un meccanismo per il quale l’entità dei trasferimenti agli enti locali sarebbe andato incontro a decurtazioni se il Comune fosse stato totalmente proprietario di utilities locali. Al contrario, sarebbe stato maggiorato in caso di cessioni di controllo. Inutile dire che si registrò una vera e propria insurrezione, non solo da parte dell’Anci e dell’opposizione ma anche di parte della maggioranza di allora. In realtà, si trattava effettivamente di un meccanismo ancora rozzo: all’occhio del mercatista, il coefficiente in base al quale graduare l’incentivo al Comune sui trasferimenti dovuti dallo Stato andrebbe oggi parametrato, più che sulle forme proprietarie, prima di tutto sull’apertura alla concorrenza dei servizi che trasferisce al consumatore minori oneri derivanti da maggior efficienza. Ma resta il fatto che un incentivo sui trasferimenti dovuti sarebbe con ogni probabilità il meccanismo di maggior impulso alla trasformazione del sistema.
Non è questa la strada imboccata dal disegno di legge Bersani-Lanzillotta. Tuttavia, vista l’eterogeneità della coalizione di centrosinistra e la fortissima resistenza dei sindaci, anche il principio affermato dal ddl può rappresentare una spinta apprezzabile verso l’apertura alla concorrenza. Com’è noto, la scelta dei due ministri era di affermare il principio per il quale l’affidamento delle nuove gestioni e il rinnovo di quelle già esistenti dei servizi pubblici locali di rilevanza economica debba avvenire mediante procedure competitive ad evidenza pubblica di scelta del gestore; fatta salva, per non incorrere nei veti della sinistra antagonista, la proprietà pubblica delle reti, nonché la gestione pubblica delle risorse e dei servizi idrici. Nel corso di aspri confronti con l’Anci, già alcuni punti di fondo del ddl sono stati decurtati. Per esempio, si prevedeva che solo eccezionalmente venisse consentito l’affidamento a società a capitale interamente pubblico che avessero i requisiti per l’affidamento in house, o l’affidamento diretto a società miste. L’ampio partito trasversale del socialismo locale ha chiesto che l’eccezionalità diventasse possibilità “motivata”, in pratica deroga ordinaria; il governo ha risposto che poteva accoglierla solo per i piccoli comuni e per alcuni particolari casi di grandi città, ma accompagnata da un preciso e vincolante programma temporale di superamento della protratta chiusura alla concorrenza.
L’eccezionalità è stata superata, per spezzare l’accordo tra sindaci e Rifondazione, ma in aula al momento dell’esame parlamentare ci sarà da tremare. Quanto più Bersani e Lazillotta terranno duro sul principio originario, tanto meno la norma farà una fine deludente, com’è invece avvenuto per la Bassanini-bis del ’97, che ha consentito sì una massiccia trasformazione delle utilities in società di capitali, ma senza indurne la cessione del controllo.
Una nuova ipotesi
Idea finale, figlia del manifesto qui pubblicato a favore dell’offerta di servizi da società no profit, una volta che i servizi fossero messi a gara: invece di impantanarsi in uno scontro tra eccezionalità o meno della messa a gara, il Governo potrebbe spiazzare il fronte del socialismo locale – che tanto diffida di servizi offerti realizzando profitti e investimenti non a carico del contribuente – proponendo che la natura no profit dell’eventuale concorrente costituisca un fattore d’asta incentivante per i trasferimenti all’ente di riferimento. In conclusione, non si tratta di mettere in difficoltà imprese private, ma di rompere il muro di chi a livello locale si limita a dire “no”, per protrarre sacche di inefficienza e clientela che il consumatore paga con servizi più cari e meno efficienti.
I servizi pubblici locali, a 15 anni dall’avvio della ritirata dello Stato dall’ambito dei servizi pubblici a livello nazionale e dall’apertura al mercato di settori come le tlc e l’energia, continuano a rappresentare un’isola infelice di statalismo non concorrenziale. La fotografia più aggiornata è quella che si desume dall’indagine Confservizi sui bilanci 2005 delle 891 società di capitale attive nei servizi pubblici locali italiani.
Il mercato e l’efficienza
Partiamo da un dato che da solo dice tutto: in soli 4 anni, sono più che raddoppiate di numero, visto che erano 405 nel 2001. A conferma che il “socialismo locale” si è esteso, in ragione della convenienza a esternalizzare nel bilancio di società controllate oneri e perdite, oltre che magari assunzioni e clientele, nonché a equilibrare la natura composita delle coalizioni amministrative attraverso il proliferare dei posti nei cda.
Se le 8 grandi imprese locali di servizio pubblico quotate hanno comunque rappresentato un’iniezione di solida efficienza gestionale imposta dal mercato per una quota che da sola rappresenta il 33% del fatturato complessivo nazionale e il 35% del patrimonio del totale delle utilities comunali, quanto a controllo proprietario non c’è da illudersi: il 73% delle 891 società è ancora interamente in mano all’ente di riferimento, e nel 65% della restante quota di società miste, la proprietà pubblica resta largamente maggioritaria. In altre parole, sul totale delle utilities locali la quota nelle quali l’ente di riferimento ha accettato di avere una partecipazione minoritaria tocca a mala pena l’8%.
Molte sono le considerazioni economiche che discendono da questo quadro.
L’emergenza Mezzogiorno
Permane una diffusa emergenza Mezzogiorno, visto che ben 174 utilities meridionali registrano un ROI (il rapporto tra risultato operativo e capitale investito) negativo, con quasi 100 milioni di euro di perdite d’esercizio complessive. In regioni come la Campania, l’emergenza è da virtuale fallimento per decine e decine di società.
Naturalmente, bisogna distinguere da settore a settore. Le multiutilities bilanciano meglio i ricavi rispetto a minor oneri di servizio pubblico. Le monosettore più sono piccole e più stentano. Le energetiche se la passano meglio. Quelle del trasporto locale e dell’edilizia residenziale sono in crisi pressoché strutturale, con costi del personale – al di là di ogni investimento e ammortamento – che da soli eguagliano o superano i ricavi totali.
Quanto alla concorrenza, le multiutilities nelle grandi realtà metropolitane hanno la forza di intercettare, pressoché integralmente, ogni ambito lasciato libero dagli ex monopolisti nazionali. I consumatori hanno una libertà di scelta praticamente nulla, poiché le fette di mercato tra oligopolista locale e nazionale sono spesso determinate ex ante dalla cessione di tratti di rete distributiva dal soggetto nazionale a quello locale per effetto delle leggi Bersani di 10 anni fa. Quanto alla trasparenza sull’efficienza e la qualità dei servizi resi, al consumatore che avesse voglia e capacità non resta che spulciare le relazioni di bilancio delle partecipate locali: potrebbe constatare che nella stragrande maggioranza dei casi esse sono lacunose, vanificando il diritto all’informazione e al controllo da parte dei cittadini.
Cosa spetta al legislatore
Come agirebbe un legislatore fortemente liberalizzatore, per incentivare l’ente locale a dismettere la veste di controllore delle società di servizio e ad aprire il mercato? Come si tentò invano di fare con la finanziaria 2005. L’allora ministro Tremonti provò a proporre un meccanismo per il quale l’entità dei trasferimenti agli enti locali sarebbe andato incontro a decurtazioni se il Comune fosse stato totalmente proprietario di utilities locali. Al contrario, sarebbe stato maggiorato in caso di cessioni di controllo. Inutile dire che si registrò una vera e propria insurrezione, non solo da parte dell’Anci e dell’opposizione ma anche di parte della maggioranza di allora. In realtà, si trattava effettivamente di un meccanismo ancora rozzo: all’occhio del mercatista, il coefficiente in base al quale graduare l’incentivo al Comune sui trasferimenti dovuti dallo Stato andrebbe oggi parametrato, più che sulle forme proprietarie, prima di tutto sull’apertura alla concorrenza dei servizi che trasferisce al consumatore minori oneri derivanti da maggior efficienza. Ma resta il fatto che un incentivo sui trasferimenti dovuti sarebbe con ogni probabilità il meccanismo di maggior impulso alla trasformazione del sistema.
Non è questa la strada imboccata dal disegno di legge Bersani-Lanzillotta. Tuttavia, vista l’eterogeneità della coalizione di centrosinistra e la fortissima resistenza dei sindaci, anche il principio affermato dal ddl può rappresentare una spinta apprezzabile verso l’apertura alla concorrenza. Com’è noto, la scelta dei due ministri era di affermare il principio per il quale l’affidamento delle nuove gestioni e il rinnovo di quelle già esistenti dei servizi pubblici locali di rilevanza economica debba avvenire mediante procedure competitive ad evidenza pubblica di scelta del gestore; fatta salva, per non incorrere nei veti della sinistra antagonista, la proprietà pubblica delle reti, nonché la gestione pubblica delle risorse e dei servizi idrici. Nel corso di aspri confronti con l’Anci, già alcuni punti di fondo del ddl sono stati decurtati. Per esempio, si prevedeva che solo eccezionalmente venisse consentito l’affidamento a società a capitale interamente pubblico che avessero i requisiti per l’affidamento in house, o l’affidamento diretto a società miste. L’ampio partito trasversale del socialismo locale ha chiesto che l’eccezionalità diventasse possibilità “motivata”, in pratica deroga ordinaria; il governo ha risposto che poteva accoglierla solo per i piccoli comuni e per alcuni particolari casi di grandi città, ma accompagnata da un preciso e vincolante programma temporale di superamento della protratta chiusura alla concorrenza.
L’eccezionalità è stata superata, per spezzare l’accordo tra sindaci e Rifondazione, ma in aula al momento dell’esame parlamentare ci sarà da tremare. Quanto più Bersani e Lazillotta terranno duro sul principio originario, tanto meno la norma farà una fine deludente, com’è invece avvenuto per la Bassanini-bis del ’97, che ha consentito sì una massiccia trasformazione delle utilities in società di capitali, ma senza indurne la cessione del controllo.
Una nuova ipotesi
Idea finale, figlia del manifesto qui pubblicato a favore dell’offerta di servizi da società no profit, una volta che i servizi fossero messi a gara: invece di impantanarsi in uno scontro tra eccezionalità o meno della messa a gara, il Governo potrebbe spiazzare il fronte del socialismo locale – che tanto diffida di servizi offerti realizzando profitti e investimenti non a carico del contribuente – proponendo che la natura no profit dell’eventuale concorrente costituisca un fattore d’asta incentivante per i trasferimenti all’ente di riferimento. In conclusione, non si tratta di mettere in difficoltà imprese private, ma di rompere il muro di chi a livello locale si limita a dire “no”, per protrarre sacche di inefficienza e clientela che il consumatore paga con servizi più cari e meno efficienti.