La fine della crisi

Il dopo crisi è cominciato? Sì, almeno se si parla di congiuntura dell’economia. Dopo più di cinque anni di recessione o ristagno, vanno meglio le esportazioni, come pure il fatturato delle imprese e i loro ordinativi, e un po’ meglio la fiducia di consumatori e imprenditori. Lo dicono le statistiche e lo dice l’informazione aneddotica – ricca in verità – che arriva a chi fa il mio mestiere, il mestiere della banca. Ci chiedono più credito le imprese, un po’ da tutta Italia, e lo fanno finalmente per investire anche in impianti, non solo in immobili.

Questo avvio di ripresa è un bene in sé, ma è un bene anche perché ci insegna qualcosa sul passato recente e sul prossimo futuro. Ci interroga sulle nostre virtù, piuttosto che sull’apporto di altri Paesi, come la Germania, che hanno cominciato a trascinarci positivamente: tutto ciò riguarda il presente e il passato recente, e ci interroga sulle responsabilità delle classi dirigenti di fronte alle opportunità che nell’Italia industriale malgrado tutto ci sono e che possono (e debbono, quindi) non essere sprecate, e questo riguarda il futuro.

Il dopo crisi è cominciato: ma, in un quadro europeo che si è fatto più roseo, che Italia trova? Su quali forze, dopo anni difficili, il nostro Paese conta, e quali debolezze sono rimediabili? Che cosa ci si deve aspettare dalle imprese, dalla società civile, per fare un passo in avanti? Ragionerei sul Paese, sulla sua società civile ed economica, e sulle sue imprese, anzitutto. Tralascerei la politica e il governo. Un po’ per saturazione: se ne parla e se ne ragiona troppo. Un po’ per convinzione: alla fine – in un Paese vitale – politica e governi debbono essere pensati come variabili dipendenti, sussidiarie appunto, rispetto a ciò che la società spontaneamente e indipendentemente produce. Chiedere troppo ai governi è segno di una debolezza della società e delle sue élites, che può portare a non assumersi tutti, e in modo consapevole, le giuste responsabilità. Per questo vorrei ragionare sulla nostra economia, per un momento e per una volta, «come se il governo non esistesse».

Il supposto declino economico italiano

Ebbene, sono convinto che negli anni del ristagno e dell’avvio del supposto declino si sia prodotta, nel mondo delle imprese, e quindi in una parte importante della nostra società, una trasformazione di grande rilievo, che dà la misura di un’energia sociale al momento sottovalutata, ma tutt’altro che esausta, e che – a certe condizioni, non tutte presenti in verità, e non facili da produrre – può segnare in termini positivi il futuro dell’Italia. Proverò a illustrarne alcuni tratti, cercando di individuarne luci e ombre. Gli anni dal 2000 in poi sono stati dominati dalla crisi della grande impresa manifatturiera italiana. La crisi della Fiat ne era il simbolo, ma la scomparsa di quasi tutta la grande manifattura che dal dopoguerra aveva trainato lo sviluppo era apparsa – lo è in effetti – come un dato di portata storica.

Con la crisi della grande impresa, per la prima volta, l’impresa piccola e media diventava l’unico elemento di tenuta dell’industria. È un fatto di grande importanza. Una cosa è essere uno dei pilastri dello sviluppo industriale, e la piccola impresa lo è sempre stata, un’altra è esserne praticamente l’unico sostegno: questa è la situazione di oggi, inedita per noi e senza uguali nei Paesi sviluppati.

Sono sorti presto legittimi i dubbi sulla adeguatezza di questo assetto anomalo rispetto alle sfide del mondo globale (ricordo per esempio prese di posizioni importanti della Banca d’Italia nel 2002 e 2003, o il libro di Luciano Gallino sulla crisi della grande industria).

Dubbi legittimi, fondati su argomenti molto seri, ma pur sempre dubbi: da sottoporre – prima di diventare certezze di senso comune – alla verifica dei fatti. E i fatti danno conto, come cercherò di argomentare, di una situazione fortunatamente un poco diversa e migliore.

Lo schema logico della diagnosi “declinista” è il seguente, così semplice, noto e convincente, da potersi riassumere in poche righe.

Nel mondo globale ci sono solo due modi di competere: quello basato sui bassi costi e quello basato sulle alte tecnologie. Chi è dotato degli uni, i bassi costi, o delle altre, le tecnologie, sta in piedi e cresce, e può anche appropriarsi delle capacità complementari dell’altra parte. Gli Stati Uniti possono appropriarsi dei bassi costi attraverso la multinazionalizzazione della produzione; la Cina può appropriarsi delle tecnologie attraverso la multinazionalizzazione della ricerca.

Chi sta nel mezzo, sta male. L’Italia, che ha alti costi e basse tecnologie sta nel mezzo e sta male; dotata com’è di sole piccole imprese familiari è senza speranze.

Questo è così vero, si argomentava e si argomenta – ma qui c’è un salto logico – che già ora l’Italia ha smesso di crescere, cresce meno di tutti, perché non riesce più a esportare i prodotti tradizionali che l’hanno fatta forte nei decenni passati. Il suo modello sociale – fatto di rigidità europee – e il suo modello di specializzazione – fatto di prodotti made in Italy a crescita lenta e poco concorrenziali – si combinano per dar luogo a un andamento della produttività dei fattori, e in particolare del fattore lavoro, divaricato rispetto a tutti i concorrenti, compresi quelli dell’Europa continentale, che già hanno i loro problemi.

Prove a sostegno: il Pil, che di anno in anno sta al fondo delle classifiche, così come gli indici di produzione, produttività, quantità esportate. La diagnosi declinista – prima della sua verifica empirica – trova un vasto accordo.

Il centrosinistra fa propri i temi del declino, anche per contrapporsi al governo allora in carica, accentuandone le responsabilità sulla crescita zero (peraltro non trascurabili, ma per una cattiva gestione della domanda interna aggregata); lo stesso centrodestra rilancia la paura della fragilità strutturale delle nostre imprese, con una ripresa di pulsioni protezionistiche che rivelano una sfiducia di fondo nelle loro autonome capacità competitive. La difesa dell’italianità delle grandi imprese residue diventa in questo quadro un dogma bipartisan.

Lo stesso mondo delle imprese rilancia a sua volta il pessimismo. Un po’ per paura: le difficoltà ci sono, la Cina, le svalutazioni che non possono più aiutare, la domanda interna stagnante, l’indotto della grande impresa che si fa più scarso e incerto, e, sul fronte del rapporto con le banche, l’incombere di nuove regolamentazioni potenzialmente restrittive del credito. Si esaspera talvolta il senso del dramma per mantenere una posizione negoziale forte con il potere politico e il sindacato.

La diagnosi era insomma largamente condivisa, quasi unanimemente. Ritengo però che già allora, prima dei segni di ripresa del ciclo, essa non facesse i conti con tutti i dati empirici che pure emergevano. La banca in verità è stata – lo è per natura – un buon punto di raccolta di dati e dubbi razionali.

Chi ha responsabilità in una banca in queste condizioni aveva, e ha, un particolare interesse a capire. Se il declino c’è e non si ammette, si sbaglia nel modo peggiore: dando troppo credito. Guai al banchiere ottimista. Ma se non c’è declino e si pensa ci sia, è comunque un male: eccediamo in prudenza, non diamo credito ai meritevoli, e finiamo noi stessi per produrre declino. Guai dunque al banchiere pessimista.

La mia esperienza personale di banca negli anni dal 2002 al 2006, fra Unicredito e San Paolo, mi ha suggerito grande cautela nel generalizzare, in verità. In quel periodo ho visto preoccupazione, molta, e anche paura, per un certo periodo, da parte degli imprenditori. Le diagnosi pessimistiche erano generalmente condivise.

Tuttavia – ecco il punto – non ne derivava una voglia individuale di battere in ritirata. Tutti gli imprenditori denunciavano problemi e difficoltà, specifiche e generali, ma intanto si ingegnavano, rilanciavano innovazioni di mercato – la Cina – e di prodotto. Tendevano, questo sì, a presentare il loro dinamismo individuale come eccezione in una platea di crisi più o meno generale; non c’era una fiducia collettiva nel futuro.

Ma in tanti – ognuno per sé – reagivano. In pochi cedevano. Non c’è mai stata un’evidenza chiara di arretramento generale, anche mentre prevaleva il più diffuso pessimismo. Hanno avuto certamente ragione i banchieri che dal generale pessimismo non si sono fatti condizionare: se le banche italiane hanno avuto buoni profitti in questi anni è stato anche perché la quantità di denaro che hanno dovuto accantonare per far fronte a crisi aziendali è stata, in confronto a fasi cicliche altrettanto difficili, singolarmente modesta.

Insomma: la logica deduttiva – modello di specializzazione, dimensione delle imprese, forma della globalizzazione, ristagno del Pil – diceva declino; quella induttiva, aneddotica all’inizio, ha stentato a confermarlo.



Come si spiega la ripresa?

Oggi, all’avvio della ripresa, credo si possa avanzare un’ipotesi che riconcilia fatti e teoria, e dà qualche conforto sul futuro e sulle cose da fare.

In sintesi, le imprese manifatturiere italiane hanno generalmente retto in anni difficilissimi e nonostante le loro conclamate debolezze. I dati che lo confermano cominciano a essere molti, e appaiono le prime analisi scientifiche a sostegno di questa ipotesi. Non è questa la sede per approfondirli, ma basta citare due elementi, per convincersi che qualcosa di inatteso è successo. Il primo è che le esportazioni hanno resistito. Sono andate male le quote di mercato dell’Italia misurate in volumi (il numero di scarpe, i metri di tessuto), molto meno se misurate in valore, il che è ciò che conta. Meglio di noi, sotto questo profilo, va solo la Germania. Nel 2000 avevamo il 3,7% del mercato mondiale; nel 2005 il 3,5% (in volume, scendiamo invece dal 3,7% al 3,1%). La caduta delle quote si è verificata prima, con un punto in meno di quota fra il 1996 e il 2000, e negli ultimi anni si è sostanzialmente arrestata.

Secondo elemento: i conti economici della manifattura italiana non sono andati male. I margini operativi sui fatturati sono scesi poco, sempre dal 2000 al 2005, e questo fatto è incompatibile con l’idea che ci sia stata una pressione irresistibile dei concorrenti esteri dal lato dei costi di produzione: se ci fosse stata, i profitti sarebbero stati schiacciati dalla competizione. Nonostante la fissazione delle parità di cambio, nonostante il ristagno della domanda interna, invece, i profitti operativi hanno retto (il che spiega l’altrimenti inspiegabile tenuta dei rischi delle banche). E così via.

Siamo insomma di fronte a un caso di grande interesse di divergenza fra una prognosi infausta, fondata in verità su indizi solidi e su una solida visione del mondo, e un decorso invece positivo, ma difficile da “modellare”, da riconciliare in una teoria. Il dovere di adesso è anzitutto quello di capire i fatti.

Che cosa sia successo comincia ad apparire abbastanza chiaro: dal 2000 a oggi le imprese italiane hanno fatto quello che avevano fatto in misura limitata e non generalizzata nei decenni precedenti, hanno cioè innovato i prodotti e la distribuzione più dei processi produttivi. La competizione italiana è stata, dal dopoguerra, una competizione basata sull’efficienza e sulla flessibilità, sui prodotti di massa e sull’automazione. La fortuna della nostra industria delle macchine utensili e delle macchine specializzate per industrie tradizionali ne è stata una conseguenza. La necessità di far fronte, nelle piccole dimensioni, alle rigidità del lavoro che coinvolgevano le imprese maggiori ne ha costituito lo stimolo. La ricetta ha funzionato, e alla fine ha spiegato la permanenza in Italia di tante imprese efficienti nonostante le piccole dimensioni e l’appartenenza a settori produttivi non di frontiera.

È questo il modello di competizione che ha retto fino alla metà degli anni Novanta, e che è saltato negli ultimi anni: non si vive solo di processi efficienti, specie se la tenuta dei prodotti sui mercati esteri richiede dosi successive di svalutazioni, che non sono più praticabili.
Il catalizzatore di nuovi comportamenti della microeconomia è stato il cambio, percepito come irrevocabilmente fisso, dopo la grande svalutazione del 1992. Di fronte al cambio fisso e alle nuove sfide, gli imprenditori negli ultimi anni si sono occupati non di processi, ma della qualità del prodotto e della sua distribuzione nel mondo, e quindi di logistica. E ce l’hanno fatta.

L’analisi articolata e scientifica di questo nuovo quasi-miracolo è tutta da fare, anche se qualcosa comincia a uscire. I valori per unità di peso delle nostre esportazioni – che costituiscono un’ottima approssimazione del contenuto di qualità dei prodotti – sono aumentati più che in tutti gli altri Paesi industriali, sostenendo valore aggiunto e profitti, e riducendo la reattività della domanda a variazioni di prezzo; il numero di mercati di esportazione dell’impresa media è aumentato sensibilmente; non è aumentato il numero di imprese esportatrici, ma chi c’è è più forte di prima. Al ristagno della domanda interna si è reagito non – come nei cicli passati – comprimendo i margini delle esportazioni, per far lavorare comunque gli impianti, ma aumentandoli, a riprova di una forza di mercato via via meno dipendente da costi e prezzi.

Ci sono ancora molte domande senza risposta organica, sulla produttività, i cui indici forse andranno rivisti, sul ruolo dei distretti – che non sembra essere stato determinante – e sulla loro nuova forma organizzativa, per esempio, come anche sul peso dei settori ad alta tecnologia, sui quali abbiamo cominciato ad affacciarci, sia pure partendo da iniziative ancora disperse (si parla di oltre seicento potenziali spin off generati dalla ricerca universitaria in pochi anni).

L’élite di fatto che non diventa classe dirigente

Personalmente, vorrei dedicare più tempo e risorse a capire e generalizzare, ma i fatti stilizzati sono grosso modo quelli descritti e ci indicano alcune cose. Sbaglia chi ha dato l’impresa manifatturiera italiana per condannata, e l’Italia destinata a essere solo patria di servizi e di reti; sbaglia chi ritiene che la tipica impresa italiana – familiare, piccola, specializzata sul tradizionale – sia fuori mercato per sua natura, appunto perché non quotata, non grande, non sulla frontiera del ciclo del prodotto. La prova del fallimento di questo modello d’impresa non c’è stata.

Già all’inizio degli anni Ottanta – mentre da molte parti si parlava di crisi strutturale del capitalismo italiano – la scuola di Ancona e altri ci hanno fatto scoprire l’Italia dei distretti e del modello Nec (Nord Est Centro). Forse siamo di nuovo di fronte a qualche cosa di questo genere, a un nuovo modello in formazione, su cui saremo prima o poi chiamati a ragionare.

Nell’attesa, mi permetto di proporre un punto di vista “provvisorio”. L’aver attribuito la debolezza della nostra economia in primis a quella parte di essa che forse più di altre si è rinnovata e ha resistito è stato un errore, un errore tanto più grande in quanto i problemi seri stavano, e stanno, altrove, e su di essi si è tardato a concentrare l’attenzione.

I problemi del declino possibile vanno individuati nei settori meno esposti alla competizione. Spesso si afferma a torto che, data la fragilità della nostra industria, dobbiamo accontentarci di difendere dalla competizione internazionale ciò che rimane: non è così. Dove ci sottoponiamo apertamente alla concorrenza ce la facciamo (e sotto questo profilo il successo di Fiat è ancor più significativo, perché rappresenta un esempio, e non un’eccezione o un miracolo). Il punto è che le capacità delle imprese piccole e medie che ce l’hanno fatta sono ancora disperse, difficili da mettere a fattor comune, largamente individuali: stentano come si è visto a essere riconosciute anche dagli economisti e dalla politica, e non diventano una forza collettiva e un esempio, da estendere dove la concorrenza e la meritocrazia non vogliono penetrare, cioè nei servizi, nella pubblica amministrazione, nelle reti.

I protagonisti che in questa vicenda sono riusciti a cavarsela, e cioè le centinaia di singoli imprenditori manifatturieri del Nord e del Centro del Paese, con qualche straordinaria punta al Sud, non si sono fatti sentire. È un’élite di fatto e di merito, ed è tale per i suoi risultati; è riconosciuta nei luoghi in cui agisce e da cui parte. Nelle nostre piccole e medie città, la figura dell’imprenditore che ce l’ha fatta, che ha da raccontare le sue avventure in Cina, in India, o altrove, torna a essere centrale, ma a livello nazionale la forza di questa élite non è emersa, non se ne avverte il peso propositivo, il senso collettivo di responsabilità, e questo non è un fenomeno positivo.

C’è insomma un’élite (neo-élite l’ha chiamata qualcuno) che stenta a farsi classe dirigente.
La coscienza di sé dell’Italia industriale che ha resistito ha poco respiro pubblico, non esce dagli ambiti familiari e locali. È un’élite che stenta a farsi classe dirigente perché stenta a elaborarsi e affermarsi come forza propulsiva nazionale e che tende, anzi, ad alimentare il senso diffuso di malcontento, di meriti non riconosciuti e di sforzi non assecondati, che tende a limitarsi a rivendicazioni e mugugni sulla gestione della cosa pubblica, in primis le infrastrutture e le tasse. Assistiamo anche per questo alla riedizione di una curiosa “questione settentrionale”, che ruba la scena al meridione, mentre il Sud riprende a staccarsi e in alcuni casi a sprofondare.

È un paradosso. L’Italia può dire di aver passato l’esame della parte più aspra della globalizzazione – gli anni della Cina, della fine delle svalutazioni, del ristagno della domanda interna – dimostrando che la parte più esposta e potenzialmente fragile della sua economia – l’industria manifatturiera – sa rinnovarsi e resistere, e che la parte più fragile di questa parte fragile – l’industria manifatturiera tradizionale e familiare – fin qui ce l’ha fatta. Eppure questa Italia non è al centro della scena, che resta propria delle grandi imprese di servizio e di rete, che invece in alcune loro parti, nonostante una concorrenza meno aperta e difficile, hanno segnato il passo.

È esattamente qui il problema della formazione di una nuova classe dirigente all’altezza del nuovo mondo, rappresentativa di ciò che l’Italia è e può essere. Da questa classe dirigente non può escludersi o autoescludersi una parte così importante del Paese. Il senso del lavoro, del successo ben guadagnato, sono in buona parte qui, nella piccola e media impresa che ce l’ha fatta. Ma sono qualità ancora troppo combinate con ristrettezze, provincialismi, scarso senso di sé e della responsabilità collettiva.

Non ce la fa l’Italia senza questa energia, che può dare sostegno a politiche meritocratiche, di innovazione, di liberalizzazione, ma che può anche essere negativa, contribuendo alla disarticolazione del tessuto nazionale. Ritengo che questo tema, che ai miei occhi emerge come esempio di quanto c’è stato di buono nel nostro Paese in questi anni, e di quanto questo buono rischi di essere disperso, coinvolga gli individui – i singoli imprenditori – le loro organizzazioni, le articolazioni della nostra società civile, e la politica. È un tema che, per quanto mi riguarda, coinvolge anche le banche, con l’impegno di fare della più grande banca italiana la banca dei singoli territori e delle Pmi, ma anche della selezione nazionale dei meriti e della loro messa a fattor comune, come pure dell’aggregazione di imprese più grandi.

Tutto ciò con l’obiettivo, che dovrebbe essere comune alle classi dirigenti del nostro Paese, a prescindere da schieramenti, ruoli, localizzazioni, di misurarsi con le tre grandi sfide della nostra società nazionale: le regole, la valorizzazione dei talenti trascurati – dei giovani e delle donne – e la nuova, e definitiva, questione meridionale. Ma questo è un altro tema.

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