C’è un aspetto di questa crisi finanziaria planetaria che nessuno ha il coraggio di affrontare di petto. Implicherebbe discussioni interminabili e per lo più ideologiche, troppa fatica e conclusioni inarrivabili. Si tratta di quello che potremmo chiamare “la fine del capitalismo”, ovvero della fine dello spirito del “laissez faire”, la fine del liberismo “senza se e senza ma”, ben incarnato dai repubblicani americani che bocciano il piano di salvataggio di George W. Bush proprio in nome dell’ideologia “mercatista” (direbbe Tremonti).



Curioso, tra l’altro, notare come nell’ultimo dibattito tv sia stato il democratico Barack Obama a difendere il piano da 700 miliardi di dollari mentre chi si preoccupava di prenderne le distanze fosse il compagno di partito del presidente, Jhon McCain. Ed è altrettanto curioso che sia un presidente repubblicano a implorare il Congresso, nel quale ha la maggioranza, ad approvare un piano di intervento statale nell’economia come l’America non ha mai visto in vita sua.



Un contributo notevolissimo al dibattito sul futuro del capitalismo lo ha dato il premier cinese Wen Jiabao che, in un’intervista a Newsweek, ha rivelato: «Siamo giunti ad un’importante conclusione: e cioè che il socialismo può anche praticare l’economia di mercato». E, quasi a dare un consiglio al suo collega Bush, ha aggiunto: «Abbiamo adottato una politica economica in grado di consentire il funzionamento delle forze di mercato nell’assegnazione delle risorse, ma sotto la guida e la regolamentazione macroeconomica del governo». La strada che Jiabao ha intrapreso per il proprio paese è la stessa che propone al resto del mondo perché «se in un paese la ricchezza è concentrata in mani di pochi allora quel paese non conoscerà mai stabilità ed armonia».



Se il socialismo di mercato di Jiabao si avvicini più del colbertismo, all’idea di economia sociale tremontiana è una questione sulla quale si può discutere. Ma il tema interessante è che quella del premier cinese è una posizione affascinante e che potrebbe fare breccia in un’opinione pubblica (compresa l’opinione pubblica degli uomini di finanza) in cerca di sicurezza, seppure statale o comunque “sociale” in momenti di instabilità, ovvero incertezza, acuta come quella che stiamo vivendo. L’idea che sia qualcun altro, lo Stato, a preoccuparsi di garantire l’equità tra gli individui libera il singolo dalla preoccupazione di dover agire per ridurre le disuguaglianze. Perfetto.

Ma siamo sicuri che quella che Jiabao chiama «guida e regolamentazione macroeconomica del governo» non sia più simile a un dirigismo paternalista imposto con la forza a popoli riottosi piuttosto che a una democratica decisione collettiva sul futuro collettivo? Jiabao, infatti, si dimentica di aggiungere un tassello al suo ragionamento e cioè che la Cina non è un paese democratico. È vero: non falliscono le banche, i soldi pubblici non vengono dilapidati per salvare le società immobiliari, ma tutto ciò avviene al prezzo della rinuncia alla libertà. Anche religiosa, oltre che economica. Chi è disposto a pagare questo prezzo, si accomodi, per tutti gli altri occorrerà rimboccarsi le maniche, rattoppare le falle, ove possibile, e cercare di ripartire, faticosamente, da dove si era lasciato, imparando dagli errori fatti e cercando di migliorarsi in un contesto ove questo sia reso possibile da una politica che, nonostante tutto, lascia liberi.

Anche di sbagliare.

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