Professor Alesina, qual è l’elemento determinante in questa fase della crisi finanziaria?
Le banche temono che i soldi prestati non siano restituiti: è il sintomo più lampante di una crisi di fiducia e quella che stiamo attraversando ne sta portando all’estremo le caratteristiche. Il timore di fallimenti potenziali ha bloccato il circuito del credito. Siamo in una situazione grave.
Come rianimare gli scambi interbancari?
Introducendo un sistema simile a quello di garanzia dei depositi: i depositi interbancari sono garantiti da un’assicurazione pubblica, per cui se una banca fallisce il deposito è garantito dallo Stato. Questo provvedimento aiuta il sistema ad avere liquidità nel caso che una banca inizi a traballare, evitando che la gente si precipiti agli sportelli. In un recente articolo sul Sole 24 Ore scritto con Guido Tabellini abbiamo proposto un sistema simile per altre operazioni bancarie: se una banca presta soldi a un’altra banca, occorre poterle garantire che se la banca beneficiaria non fosse in grado di restituire i soldi, lo Stato darebbe una garanzia sulla passività della banca.
Lei parla non solo di garanzia sui depositi ma anche di garanzia sui finanziamenti al sistema produttivo?
Sì, anche se non si può fare un’assicurazione su tutto. Occorre che la garanzia sia temporanea e che la banca sia responsabilizzata in modo da essere in condizioni di non prestare a chiunque. L’ha fatto l’Inghilterra con il suo piano di salvataggio.
Non si potrebbe arrivare ad una capitalizzazione operata dagli attori coinvolti, cioè le imprese, per esempio attraverso un fondo?
È difficile e non credo che sia il loro compito: sono tante e dovrebbero coordinarsi. L’operazione di predisporre strumenti di assicurazione “collettiva” per riportare fiducia, a mio avviso, può essere solo compito dello Stato. Tra l’altro credo che questi interventi – piano Paulson o altri interventi di ricapitalizzazione – quando la bufera si sarà calmata non coseranno poi molto al contribuente. I titoli deprezzati acquistati dal piano Paulson ad un prezzo molto basso potrebbero riprendersi tra cinque o sei anni, lo Stato potrebbe rivenderli senza perderci anzi guadagnando qualcosa in più. È quello che è successo in Svezia negli anni ’90: di fronte ad una crisi simile, lo Stato ha nazionalizzato le banche, successivamente le ha rivendute e i contribuenti ci hanno guadagnato.
Negli Usa la Fed ha comprato commercial paper, le cambiali a breve termine emesse dalle aziende, venendo incontro direttamente alla necessità di finanziamento del sistema produttivo…
È vero, ma questa è una cosa che la Bce, per statuto, non può fare. Naturalmente gli statuti si possono anche cambiare in un momento di crisi, ma al momento non è possibile. Ma ripeto, ogni statuto si può cambiare.
Qual è il suo giudizio sulla politica congiunta di Fed e Bce di riduzione dei tassi?
L’Euribor non ha risentito minimamente del taglio dei tassi, come non sono bastate le iniezioni di liquidità fatte dalle banche centrali. Diminuire i tassi non è servito. Il taglio di tassi è stato deciso da Bce e Fed insieme per dare un messaggio prevalentemente politico: non credo che loro stesse si aspettassero molto da un taglio di tassi di mezzo punto. Come puntualmente si è verificato: quando manca la fiducia, anche abbassare i tassi di mezzo punto è una misura che non incide.
Nella Ue ognuno ha il suo piano, ma non appena si fa l’ipotesi di un trasferimento di fondi a favore dei partner non si giunge ad un progetto organico, per esempio un fondo europeo di sostegno o un eurobond. Che ne pensa?
Io stesso ho sottoscritto una lettera firmata da qualche centinaio di economisti che suggeriva alla Ue di intervenire con uno strumento congiunto. I dettagli si possono discutere, ma credo che un intervento unico e coordinato avrebbe fatto bene. Non c’è stato, e provare a far qualcosa ma non riuscirci è ancor peggio che non tentare nulla, perché dà l’idea di uno scacco. Non è un caso che l’ultimo crollo di borsa è cominciato all’indomani della riunione di Parigi, nella quale non si è approdato a nulla.
Il nostro governo ha predisposto un piano di salvataggio. Vede un rischio insito in questi piani?
Se oggi si salva una banca, questa non è disincentivata a rifare gli stessi errori, perché può sperare in un salvataggio in futuro. Ma siamo a un punto in cui queste considerazioni passano un po’ in secondo piano. Occorre innanzitutto predisporre gli strumenti che possono aiutare a superare l’emergenza – assicurazioni sui prestiti bancari, ricapitalizzazione delle banche, ritiro dal mercato di titoli che sono carta straccia come ha fatto il Piano Paulson, aiutare i mutui – far passare questa bufera e poi, quando tutto si sarà calmato, ritrovare un modus operandi improntato alla normalità. C’è ora una situazione di panico in cui tutti stanno vendendo e nessuno si assume il minimo rischio.
È un atteggiamento irrazionale?
Certamente; come ci sono boom irrazionali di euforia, così ci sono situazioni di sfiducia e panico difficilmente controllabili. Si dice che occorre perfezionare la regolamentazione, ma di fronte a questi fenomeni non ci son regole che tengano. Naturalmente veniamo da una situazione sulla quale hanno pesato diversi fattori chiaramente identificabili: banche di investimento sottocapitalizzate, gli errori di Greenspan, che ha tenuto i tassi troppo bassi… ci sono però fattori emozionali di cui i mercati risentono ma che non dipendono dai mercati, sono piuttosto insiti nella natura umana. In realtà pessimismo ed euforia ci sono sempre stati, a fasi alterne.
Questa crisi ha indotto da più parti una riflessione radicale sul modo di fare banca e finanza.
Si sentono discorsi su crisi delle banche, crisi del sistema finanziario o dello stesso capitalismo. Ma io andrei più cauto. Queste crisi si sono puntualmente verificate ogni dieci quindici anni; questa è particolarmente forte, ma attenzione ad aprire discussioni che possono portare sfiducia nel sistema.
Intendevo dire che c’è chi ha criticato la finanziarizzazione e un modo di fare banca funzionale alla finanza speculativa piuttosto che all’economia reale.
Non possiamo tornare alla finanza dell’ottocento. Ma va rilevato che le crisi finanziarie c’erano anche prima, quando la finanza era molto meno sofisticata. Senza la finanza sofisticata e il boom di internet a mio avviso avremmo avuto meno sviluppo. Gli Usa, anche grazie alla finanza, hanno avuto 15-20 anni di crescita ininterrotta, senza recessioni, a tassi del 3-4 per cento l’anno. Se anche ci fosse una recessione di 2-3 punti di Pil per un paio d’anni, in un periodo come quello degli ultimi vent’anni, sarebbe pur sempre un successo del sistema.
Le conseguenze che dobbiamo aspettarci in termini di economia reale?
Sono relativamente ottimista. Occorre innanzitutto distinguere tra Italia e resto d’Europa. L’Italia è un caso a parte, perché sono 15 anni che l’Italia cresce meno della media europea che è già bassa. Probabilmente ora andrà in recessione e si dirà che non cresce a causa della crisi finanziaria e della recessione originata negli Stati Uniti, insomma sarà un alibi. Invece non è così: L’Italia ha dei problemi strutturali che non c’entrano nulla con la crisi finanziaria. Certamente essa potrà aggravarli, come un ciclo negativo che si inserisce in una situazione difficile. Il resto del mondo andrà in recessione, ma è molto tempo che non vediamo recessioni vere e proprie definite con tassi di crescita negativi per qualche trimestre, o per un anno o due. Le recessioni ci sono sempre state e questa non sarà l’ultima.