Sabato a Washington il G7 ha indicato le direttrici sulle quali muoversi per ridare stabilità ai mercati finanziari: difesa dei sistemi di garanzia dei depositi; assicurazione di condizioni di liquidità adeguate; apporto, se necessario, di risorse pubbliche per rafforzare il capitale delle banche; rivitalizzazione del mercato delle cartolarizzazioni. Per metterle in atto, domenica è seguito a Parigi il vertice straordinario dell’Eurogruppo che ha reso noto che la Bce assicurerà la liquidità necessaria, e che gli Stati garantiranno i prestiti interbancari fino al 2009 e la ricapitalizzazione delle banche in difficoltà. Quindi un intervento coordinato e globale viste le dimensioni del problema. Resta però la difficoltà nel capire dove stiamo andando. Dire se sia stato toccato il fondo o se ci aspettino altre cadute significa avventurarsi in previsioni che rischiano di essere smentite dall’evoluzione degli avvenimenti. Quel che si può invece fare è fissare, sia pur in modo sommario, tre punti fermi sulle cause dell’attuale crisi finanziaria.
1) L’eccessiva facilità creditizia praticata da Greenspan. È bene ricordare che a momenti i tassi praticati erano addirittura negativi data un’inflazione più alta dei tassi bancari applicati agli impieghi.
2) La legge americana del ’99 (il Gramm-Leach-Bliley Financial Services Act), la più radicale riforma bancaria dagli anni della Depressione. Abolendo il regime speciale del ’33 (il Glass-Stegall Act), ha posto fine al principio della separazione tra l’attività di commercial banking e quella di investment banking, e ha limitato significativamente il potere di controllo della Federal Riserve sulle banche di investimento e gli istituti di credito ipotecario i cui organi di controllo primario sono diventati la Security Exchange Commission e i singoli Stati. Questo ha significato libertà assoluta sul piano patrimoniale e nell’utilizzo della leva finanziaria.
3) La possibilità concessa negli ultimi anni alle banche di spalmare i rischi attraverso l’immissione sul mercato di prodotti finanziari collegati agli stessi (Cdo, Abs, etc.). Uno degli esempi più noti sono i mutui subprime sottoscritti da persone con un’elevata possibilità di insolvenza. La loro diffusione è stata incentivata proprio dal fatto che si potevano distribuire i rischi a essi sottostanti. È la formula conosciuta come originate to distribute, che consente di trasferire il rischio sul credito dalla banca originaria creditrice a terzi.
Se queste sono le principali cause della crisi attuale, va anche sottolineato che non hanno funzionato i sistemi di controllo e di valutazione. Chi dava gli scoring di merito, ad esempio, in realtà non aveva capito nulla della natura dei nuovi rischi. Di fronte a tale situazione, per tamponare gli effetti della crisi, la risposta dei governi e delle autorità monetarie finora è stata quella di immettere molta liquidità sul mercato e di agevolare fusioni e salvataggi arrivando a nazionalizzare alcuni istituti finanziari. Le investment bank americane sopravvissute sono state costrette a trasformarsi in banche commerciali.
Tutti gli interventi pubblici sono in ogni caso da considerare come misure tampone, ma la cura è un’altra cosa. Per questa ragione è necessario intensificare gli sforzi, in ordine di priorità, su quattro livelli d’azione:
1) Ricreare un reale clima di fiducia. Ciò può avvenire solo se riprende a funzionare un libero mercato interbancario. Quindi le banche devono ricominciare a prestarsi i soldi;
2) Favorire la finanza collegata all’economia reale. I singoli Stati adesso intervengano anche per non far mancare il credito alle aziende;
3) Spingere le banche verso una maggiore patrimonializzazione, ponendo limiti alla leva finanziaria;
4) Riscrivere le regole, purché non diventino un modo per dare agli Stati un potere improprio rispetto ai principi che governano la libertà nell’economia.
Nel clima di confusione e di panico con cui si è cercato di reagire alla crisi si nascondono pure alcuni errori insidiosi che vanno scongiurati. Anzitutto quello di demonizzare l’attività bancaria e in primis il ruolo giocato dalla finanza che anche attraverso i derivati esercita una funzione importante per lo sviluppo delle aziende produttive. Un altro errore da evitare è mettere sotto accusa il mercato, che non è un’ideologia, come ha acutamente sottolineato Ostellino sul Corriere della Sera, ma un meccanismo tecnico. Può essere comprensibile la tentazione di rifugiarsi sotto il mantello di uno Stato che incarnerebbe il bene, ma senza mercato ci sarebbe meno libertà reale per tutti. Lo dice la nostra storia: senza il rischio di migliaia di imprenditori non sarebbe stato possibile lo straordinario sviluppo che l’Occidente ha conosciuto rispetto ad altre aree del pianeta. Potrebbe insomma farsi avanti un pensiero che, speculando su fallimenti dovuti all’inadeguatezza di regole e controlli, e rincorrendo una facile demagogia sulle tutele sociali, finirebbe con lo scoraggiare una sana cultura del rischio aprendo una breccia pericolosa. Nei fatti questo significherebbe in America un ritorno al new deal e in Italia la riproposizione di Beneduce. Un preoccupante passo indietro anche sul piano sociale. Non voglio immaginare fra vent’anni giovani, della stessa età di quelli che in questi giorni hanno lasciato con gli scatoloni in mano i propri uffici alla Lehman Brothers, seduti su altri scatoloni, ma questa volta in mega uffici pubblici, senza né la preparazione né l’energia di chi oggi si sta rimboccando le maniche per ricominciare.