Analisti di ogni settore commentano da ormai un po’ di tempo la situazione socioeconomica internazionale, chi con preoccupazione, chi più ottimista. Esperti che rilasciano dichiarazioni tecniche, previsioni basate su studi minuziosi e dettagliatissimi, gareggiano nel far prevalere la propria analisi e le proprie teorie.



Ma che ne pensano gli italiani? Com’è vissuta, a livello comune, l’attuale bufera finanziaria e la conseguente crisi economica?

Lo abbiamo chiesto a Nicola Piepoli, fondatore dell’Istituto Piepoli, voce internazionale nel campo dei sondaggi e del problem solving.

A che livello il cittadino medio italiano percepisce la crescente sfiducia che si respira nei confronti dell’economia?



In primo luogo direi che non si tratta di sfiducia, ma di paura. La paura di perdere i propri soldi, il posto di lavoro, il bel mondo in cui vive. Perché bisogna ricordarsi che quello in cui viviamo è un bel mondo e che noi, malgrado tutto, siamo un popolo ricco. Anche coloro che coprono tre settimane su quattro, in termini di spesa, si possono definire “ricchi”: basta che vadano a fare un soggiorno in Kenya e potranno benissimo accorgersene.

Esistono due grandi motivazioni nell’azione della gente: il desiderio di guadagnare e la paura di perdere. In questo momento gli italiani vivono nella nella paura di perdere quello che hanno.



Nei riguardi delle istituzioni politiche come viene concepita questa paura?

È innegabile che ci sia un pessimismo diffuso, ma la politica sembra coinvolta molto meno di quanto ci si aspetti. Diceva Pareto che «ottimismo e pessimismo nascono giganti». In questo momento c’è sì pessimismo, ma è un sentimento che poco ha a che fare con la politica.

Per fare un esempio è come se un terrorista avesse lanciato una bomba in un teatro e la gente se la prendesse col titolare del teatro. Mentre la reazione più normale per le persone è quella di pensare a fuggire senza stare troppo a chiedersi il perché. È una sorta di autoconservazione.

Noi pensiamo che l’attuale governo abbia addirittura un beneficio da questa crisi. Nel senso che quando c’è una situazione difficile crisi la popolazione tende a preferire qualcuno che dia ordini. E sembra che questo governo sappia dove andare, per lo meno ne dà la percezione. É dunque un momento favorevole non sfavorevole per i governi al potere, di qualunque maggioranza essi siano rappresentati.

Il nostro appare per di più un governo decisionista, e quindi la situazione è ancora più favorevole.

A suo avviso la paura che lei descrive viene percepita dalla gente come contingente o piuttosto come strutturale?

Diciamo che su questo stiamo indagando. Il clima di opinione, in termini di sentimento della popolazione, è notevolmente peggiorato in questi mesi, da una settimana all’altra. Si assiste a una sorta di avvitamento.

Ma è importante considerare la struttura. Ormai è stata toccata la struttura della mentalità della popolazione per cui è molto difficile cambiare il sentimento diffuso da pessimismo a ottimismo. Occorre che prima si sfoghi la bufera di negatività.

C’è poi chi azzarda paragoni con le passate crisi. Io preferisco considerarle invece come se fossero tanti singoli individui. C’è la crisi del 1907, quella del ’29, del ’58 e del ’74. E, oltre a queste, ve ne sono state e ve ne saranno molte altre. A partire dallo scorso secolo ai giorni nostri di crisi importanti, davvero importanti, ce ne saranno state una decina, le quali hanno toccato circa due o tre generazioni. Fra queste consideriamo le due guerre mondiali e lo tsunami.

Ma con tutte queste la crisi attuale è assai poco coniugabile perché è nata in maniera diversa, cresciuta in maniera diversa e fondamentalmente più globale di tutte le altre. Come spettatori ci aspettiamo una reazione piuttosto immediata (per “immediato” intendiamo circa un arco di tempo di 6 mesi) dei governi. Nel giro di circa sei mesi il nostro governo avrà già architettato le risposte che sono essenzialmente opere pubbliche. I programmi e i progetti relatici ci sono già per cui si tratta di appaltare.

La rinascita si avrà probabilmente a partire dal settembre dell’anno venturo, quando il governo avrà architettato progetti secondo la maniera del recovery, che è la maniera classica keynesiana.

All’interno di questo stato di percezione rimangono alcuni capisaldi cui aggrapparsi? Dei punti di riferimento stabili?

Sì, sicuramente. Lo Stato si rafforza, la Chiesa si rafforza. Tutto ciò che è immortale si rafforza.

Mi ricordo cosa diceva mio padre il 27 aprile 1945. Mia madre e io eravamo spaventati perché si passava dall’RSI al Regno d’Italia. Tutto era cambiato perché si passava da uno Stato all’altro. Mio padre diceva comunque: «io prenderò lo stipendio il 27, come tutti i 27, perché lo stato non muore mai». Era un impiegato statale. E in effetti lo stipendio arrivò, anche se targato “Regno d’Italia”.

Benedetto XVI col suo monito rivolto all’abbandono delle cose terrene e caduche è la controprova di questa dinamica nella dimensione religiosa. Ricordo che in tempo di guerra noi pregavamo con molta più solerzia di oggi.