Il ciclone Berlusconi/Tremonti si è abbattuto sui tabù di Bruxelles che sembravano inattaccabili: no alle norme Ue sul CO2, all’apparenza virtuose, in realtà suicide visto che né l’America né l’Asia sembrano aver la minima intenzione di applicare le stesse regole del gioco. Sì all’intervento pubblico nell’economia. «È cambiato il mondo – commenta Giulio Tremonti -Nel 2001 anche le operazioni di buon senso, come un intervento congiunto per ridurre il costo delle assicurazioni sugli aerei dopo l’11 settembre veniva accusato di essere un aiuto di Stato dagli Usa. Oggi ci seguono…». A partire da un piano Ue per le infrastrutture, per cui Silvio Berlusconi ha finalmente trovato orecchie attente. Terzo punto, regolare i conti con la finanza, anche a costo di uno scontro frontale con i templi del libero mercato. «Giulio Tremonti vuole abolire gli hedge fund – si legge nella Lex Column della Bibbia della City. Anzi, ha avvertito che quando l’Italia avrà la presidenza di turno del G8 a gennaio porrà la questione della «distruzione totale di questa diabolica industria». Non c’è andato leggero l’Ft: Tremonti è «la locusta italiana», tanto per ricordare l’attacco di Franz Muntefering, leader dei socialdemocratici tedeschi che a suo tempo definì private equity le “locuste del capitalismo”. Al contrario, sostiene il giornale inglese, gli hedge sono «un’essenziale fonte di liquidità per gli investitori, italiani e mondiali». Cancellare gli hedge, così importanti per Londra (mezzo milione di persone ad alto reddito popolano Kensington e gli altri quartieri eleganti della finanza) equivale a buttare via il bambino con l’acqua sporca.
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E qui sta il nocciolo del problema. Berlusconi e Tremonti, che a suo tempo ha individuato con chiarezza lo tsunami finanziario in arrivo, oggi lanciano un nuovo allarme: la crisi bancaria sta contagiando l’economia reale. Di conseguenza, da buoni medici, i governi devono mettere in quarantena al più presto gli agenti della crisi, banchieri, hedge, finanzieri vari. E garantire, al tempo stesso, il necessario carburante “all’economia reale”. Se non si agirà nei tempi e nei modi giusti, le grandi economie manifatturiere rischieranno di andare in crisi per assenza della domanda. Il tutto mentre gli americani, senza andar troppo per il sottile, stanno stanziando miliardi di dollari per sostenere la riscossa di Detroit. Limitarsi a salvare i mercati finanziari, sperando che la crisi si fermi sull’uscio di Piazza Affari, è ormai una pia illusione.
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Lo confesso: non ho grande fiducia nella distinzione manichea tra l’economia reale, cioè buona, e quella “di carta”, cioè quella cattiva, di natura finanziaria. Come sostiene Robert Shiller, il primo a mettere in guardia sia contro la bolla Internet che quella immobiliare, il problema non sta nella “troppa finanza” – ma nella finanza in mano a pochi. Nel corso degli ultimi dieci anni nessuna istituzione, pubblica o privata, ha aiutato i cittadini americani (o italiani) a gestir correttamente il risparmio sul fronte dei mutui, dell’investimento previdenziale, della diversificazione degli investimenti. La crisi, insomma, è frutto di un uso autoritario ed egoistico dei progressi compiuti dalla finanza, anche nel campo della tutela dal rischio: i vari derivati non sono uno strumento del diavolo, ma mezzi per ridurre il rischio usati per scaricare il rischio stesso sui risparmiatori inconsapevoli. Guai a punire la finanza in quanto tale. Ma non lasciamola più nelle mani di pochi, così come non facciamo di fronte ad una nuova medicina.
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Non dimentichiamo che nel corso degli ultimi anni la corsa dell’economia globale è stata sostenuta dalla maggiore velocità di circolazione del denaro, resa possibile a sua volta dalla diffusione dei nuovi strumenti oggi alla sbarra. Basti dire che “la leva” (cioè il debito) di grandi banche europee ha superato 40 volte. Il che sta a dire che Deutsche Bank piuttosto che Barclays hanno imprestato 40 volte il capitale in cassa. È ovvio che, una volta crollata la fiducia, si deve tornare a rapporti più normali. Ma la riduzione della leva, fenomeno in corso da almeno un anno, ha provocato molti più danni del previsto. Perché lungo il percorso si è scoperto che qualcuno, hedge fund in testa, aveva scommesso cifre incredibili, moltiplicando per decine di volte i capitali a disposizione. Insomma, la banca ha prestato troppo; buona parte di quei quattrini, nel corso del tragitto, si sono trasformati in altri investimenti a debito. Il risultato? Come un boomerang la finanza ha investito l’economia reale, quella stessa economia che era stata generosamente finanziata negli anni passati per consentire ad indiani e cinesi di mettere su fabbriche per finanziare i consumi di americani che s’indebitavano a basso prezzo per acquistare prodotti a basso costo.
Il giocattolo si è rotto. L’economia reale rischia di produrre beni che nessuno può permettersi di comprare. È il racconto che nonna Bernanke faceva al nipotino destinato a diventare il presidente della Fed. Nel ’29 la famiglia Bernanke, racconta l’economista, viveva in una città ricca di fabbriche di scarpe. Ma nessun figlio di operaio aveva i soldi per comprarne un paio. E le fabbriche chiudevano. Un circolo perverso, che siamo in grado di scongiurare con le giuste azioni.