L’”Irizzazione” dell’Italia è l’ultimo rischio dal quale gli economisti ci vogliono salvare, non essendo riusciti a salvarci dai precedenti. Il timore è che la necessità di sostenere l’industria finanziaria e industriale italiana sia l’occasione che lo Stato aspettava per allargare i propri confini per entrare nel capitale e, quindi, nella gestione delle imprese salvate. A parte il fatto che se si viene salvati per colpe gestionali che si sono commesse, il “salvatore” ha tutto il diritto di accampare diritti (i libici hanno chiesto la vicepresidenza dell’Unicredit non a caso), quella delle “Irizzazione” non mi pare sia un rischio all’orizzonte. Se si guardano i fatti si rileva che, per le banche, il governo ha promesso che metterà a disposizione (e quindi nemmeno stanziato) un ombrello di 20 miliardi di euro per ricapitalizzare quelle che chiederanno il suo intervento dopo che la Banca d’Italia ne avrà accertata la necessità. Poi ha deciso di predisporre nuove regole riguardanti la borsa (limite dell’Opa abbassato al 20 per cento e obbligo di comunicazione della soglia rilevante al 2 per cento) così da innalzare un muro verso i conquistatori, particolarmente stranieri e, più particolarmente, i fondi sovrani dei quali, però, non si ricorda un solo raid “ostile” e meno che meno in settori industriali sensibili come banche o infrastrutture. I loro interventi sono sempre stati concordati o con la banca (vedasi i vari casi di fondi sovrani entrati nel capitale degli istituti americani) o direttamente con lo Stato.



L’annuncio di aiuti pubblici al settore industriale è comprensibile alla luce della lentezza con la quale il sistema finanziario reagisce alle cure intensive al quale è sottoposto da più di un anno, oltre che alla luce dei gravi danni che le industrie hanno subito dalla disastrosa politica della Bce in quanto a tassi d’interesse. Il basso tasso di spirito liberalizzatore, spero solo rattrappito dalla furia della crisi, di questo governo non deve essere scambiato con il desiderio di un nuovo interventismo nell’economia. Sostenere il settore delle grandi infrastrutture pubbliche (come probabilmente avverrà) è l’ovvia declinazione pratica della promessa di portare a termine quella ventina di opere pubbliche già avviate e che gli industriali privati minacciano di non concludere a causa dell’esplosione dei costi delle materie prime. L’alternativa ad aiuti al settore infrastrutturale è l’abbandono delle ambizioni di modernizzare il Paese.



Le dichiarazioni del presidente del Consiglio fanno parte della “cassetta degli attrezzi” (come è stata chiamata) utili a superare il momento drammatico che stiamo attraversando. In questa “cassetta” il governo ha messo anche una buona dose di marketing e di politica degli annunci, utili di volta in volta a minacciare (“Non permetteremo Opa ostili”) o a rassicurare (“Gli aiuti pubblici sono una necessità imperativa”). Tra l’altro mi chiedo quali misure avrebbe preso un governo di centrosinistra se non le stesse che ha preso quello di centrodestra nelle condizioni date: la mancanza di concrete e serie proposte alternative provenienti dal “governo ombra” (“fantasma”?) guidato da Walter Veltroni non permette di soddisfare la curiosità.



Diverso il discorso su quale dovrebbe essere la priorità di spesa. La costituency di questa maggioranza la induce a destinare risorse all’apparato produttivo, e questo è più che comprensibile, ma credo che la vera emergenza sia quella di operare a favore delle famiglie che sono le prime, vere vittime della crisi. In questo senso l’accordo per la rinegoziazione dei mutui a tasso variabile contrattato dal ministro dell’Economia Giulio Tremonti con l’Abi non ha dato i frutti attesi. Occorrerebbe rimettere quell’accordo nel cassetto e pensare a qualcosa di decisamente più incisivo.