Sui temi più controversi dell’attuale crisi finanziaria americana e sulle sue ripercussioni europee, ilsussidiario.net ha intervistato il vicedirettore del Corriere della Sera Dario Di Vico. «Sì, c’è un caso Unicredit: è la nostra banca più internazionalizzata, probabilmente la controllata tedesca ha fatto una politica troppo esposta con i mutui… sono tutti fattori che vanno considerati con attenzione, senza però arrivare a farne elementi di tipo sistemico».



Negli Usa un’inedita coalizione tra repubblicani e democratici ha portato alla bocciatura del piano Paulson, riaprendo il dibattito sui compiti e sui limiti, reciproci, di Stato e mercato.

Il voto dell’altro giorno al Congresso americano ha rimescolato gli schieramenti. Da un lato è vero che Obama e McCain sembrano appoggiare la decisione dell’amministrazione, dall’altro molti congressmen di entrambi gli schieramenti, pensando di interpretare gli umori profondi del paese, hanno votato contro e hanno determinato quella sorta di ribaltone di cui si parla da giorni. È un fatto su cui riflettere. Dimostra che una cultura che diffida dell’intervento dello Stato è trasversale in Usa e fa parte della storia del paese, di come sono cambiati gli orientamenti di massa dopo la rivoluzione reaganiana e quindi li si ritrova in entrambi i partiti.



Il piano Paulson si è trovato di fronte ad un’alternativa: accollarsi i debiti delle banche, comprando e ripulendo i prodotti “tossici” – ed è la soluzione del segretario del Tesoro – oppure fare una compartecipazione, acquisendo quote degli istituti di credito e nazionalizzandole di fatto. Qual è la sua opinione?

Se non sbaglio questa notte il piano è stato ripresentato in una forma diversa. Senza voler entrare in questioni tecniche, si può però fare una considerazione di fondo. Stiamo certamente assistendo all’avanzare di ricette e a una discussione che preoccupano chi è per una visione pro mercato. C’è effettivamente il rischio che i contribuenti americani debbano caricarsi in futuro dei costi di questi salvataggi, che impiegano risorse che verranno inevitabilmente sottratte ad altre voci importanti per lo sviluppo. Siamo di fronte a una fase di passaggio delicata con un rischio molto forte.



Possiamo essere moderatamente ottimisti?

È chiaro che a confronto dell’Europa gli Usa hanno un’economia molto vitale. I cicli di ripartenza americani sono molto più veloci di quelli europei. Il sistema Usa è molto dinamico: tra l’altro questo ha fatto dire, per esempio, a Francesco Giavazzi che da un’operazione come quella del rescue-plan lo Stato potrebbe perfino guadagnare. Non è affatto detto, quindi, che di fronte a un ripiegamento la società non sprigioni energie e si mostri capace di rilancio. Anche se oggi si vedono soprattutto i rischi.

Unicredit ha perso il 16% in due giorni. Il nostro sistema è a rischio?

Ho sotto mano il comunicato del Tesoro, emesso da Tremonti dopo una riunione con Bankitalia, e fortunatamente non vi si trova nulla che legittimi il panico, al di là di una comprensibile preoccupazione per quanto sta accadendo. Sì, c’è un caso Unicredit: è la nostra banca più internazionalizzata, probabilmente la controllata tedesca aveva fatto una politica troppo esposta con i mutui… sono tutti fattori che vanno considerati con attenzione, senza però arrivare a farne elementi di tipo sistemico. E poi in una fase come questa, che ha bisogno di razionalità, il panico aggrava la situazione creando instabilità.

Può sorprendere che Draghi abbia ribadito di avere la massima fiducia nelle autorità, mentre al contempo la Consob ha vietato vendite allo scoperto, per “evitare che si indirizzino sui mercati nazionali manovre speculative”?

La Consob ha fatto semplicemente il suo lavoro. E il comunicato del Ministero è molto chiaro: “le tensioni che si sono verificate sul mercato borsistico italiano in questi ultimi giorni prendono le mosse dalla crisi del mercato immobiliare negli Stati Uniti, che ha di recente contagiato anche istituzioni finanziarie europee. Queste tensioni sono del tutto ingiustificate alla luce della solidità patrimoniale e della soddisfacente situazione di liquidità di tutte le principali banche italiane, come anche testimoniato dagli indicatori di solvibilità elaborati dal mercato e da esso continuamente aggiornati”. E aggiunge che il ministero dell’Economia, d’intesa con Bankitalia, adotterà tutte le misure necessarie per garantire la stabilità del sistema bancario e tutelare i risparmiatori. La situazione è monitorata. Capisco che la parola “contagio”, dal punto di vista giornalistico, sia meravigliosa e faccia correre la fantasia.

Il piano di salvataggio del governo Usa ha suscitato un ampio dibattito sul rapporto tra Stato e mercato, tra controllo, liberismo finanziario senza limiti ed economia reale.

Userei una metafora. Il piano Paulson è una diga: c’è chi dice pericolosa, chi necessaria, ma di diga si tratta. Detto questo si può senz’altro avviare una riflessione più approfondita su controlli, procedure, culture, comportamenti, sul tema della troppa finanza e della poca attenzione all’economia reale.

La crisi mette in discussione funzionamenti e controlli oppure è più profonda e riguarda un intero modello di razionalità economico-finanziaria?

Ripeto, a mio avviso la crisi chiama in causa un insieme di regole, comportamenti e culture. Ma attenzione, occorre evitare l’equazione semplicistica globalizzazione uguale finanza. No, perché la globalizzazione ha il merito di portare nella platea mondiale milioni di individui e nuovi paesi. Oggi possiamo parlarne perché il mondo cresce ancora del 3-4% e la crescita è assicurata da nuovi attori come India e Cina. Se questo non avvenisse sarebbe un problema.

Si spieghi.

Mi limito a riferirle di un episodio occorso all’ultimo seminario Ambrosetti di Cernobbio. Dalla platea un imprenditore italiano si è rivolto ad un economista cinese, che aveva appena terminato una relazione sulla situazione americana e mondiale, chiedendogli se da loro, in Cina, continuasse la crescita. Alla risposta affermativa dell’economista, che sì, da loro la crescita continuava al ritmo dell’8-10%, in sala c’è stato un generale sospiro di sollievo. Attenzione, quindi, a generalizzare. La globalizzazione è un fenomeno in crescita. Quanto invece alla comunità finanziaria, è un tema che bisognerà affrontare con severità, nei termini di una riforma virtuosa di certi comportamenti e delle regole necessarie.

Il nostro sistema bancario finora è stato toccato in modo molto marginale dalla crisi. Perché? Perché è meno finanziarizzato e più legato al territorio e all’economia reale?

C’è una scuola di pensiero che dice che in Italia il contagio non arriva perché il sistema è poco modernizzato. Non mi pare che il nostro sistema bancario sia tutto territorializzato, direi piuttosto che è un modello misto. Ci sono delle particolarità del nostro paese che indubbiamente non esprimono modernizzazione; ammesso che occorra considerare la modernità come una scissione dal territorio.

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