Molti commenti sulla grave crisi finanziaria tendono a minimizzare l’accaduto invocando a testimonianza il modello inglese, che ha scelto la strada dei servizi finanziari ed è cresciuto per un decennio più della media europea. Eppure, sfogliando autorevoli giornali quali l’Herald Tribune e il Guardian, si scopre che persino conservatori inglesi quali James O’Shaughnessy, responsabile della politica e della ricerca, il cancelliere ombra George Osborne e il ministro ombra della competizione Mark Prisk stanno abbandonando tesi fondate sull’ultraliberismo finanziario abbracciate al tempo della Tatcher.



L’idea sostenuta è che anche in Gran Bretagna la finanziarizzazione esasperata dell’economia ha avuto effetti perniciosi nel lungo periodo, con un distacco totale dall’economia reale del mondo della finanza. Prima del 1973 solo il 10% degli investimenti era considerato speculativo mentre oggi è giunto al 90%; oggi solo il 2,3% dei prestiti interni delle banche è destinato all’industria manifatturiera. Ne consegue anche una crescente disuguaglianza distributiva: nel 1976 il 50% più povero della popolazione possedeva il 12% della ricchezza, escludendo le proprietà immobiliari, mentre oggi possiede solo l’1% della ricchezza complessiva e il valore reale dei salari è diminuito. Quale ricetta quindi per un sistema che, al di là delle apparenze, rischia di generare ineguaglianze sempre più grandi e di non supportare più lo sviluppo?



La soluzione non sta in uno statalismo desueto dove le perdite private siano nazionalizzate. Occorre guardare alla situazione reale della gente. Senza nascondersi la necessità di operare una riforma globale del sistema macro-economico, i nuovi conservatori britannici si pongono come obiettivo la possibilità dell’autosufficienza di fasce sempre più grandi della popolazione attraverso la promozione di un’imprenditoria diffusa, una pluralità di forme di proprietà, una facilità ad acquisire capitali da usare per finanziare l’economia reale, un rilancio del sistema economico locale onshore, attraverso la decentralizzazione delle funzioni economiche e amministrative e dei finanziamenti pubblici. Singolare risulta l’assonanza con tesi abbracciate da tempo da Giulio Tremonti nella sua critica al mercatismo: il rifiuto di un semplice ritorno allo stato assistenziale con un taglio alla spesa pubblica; la centralità dell’economia reale, affermata nei fatti dal sostegno alla piccola e media impresa e dalla difesa delle esportazioni italiane; la riproposizione di una finanza privata che sostenga grandi investimenti anche pubblici; il federalismo fiscale, unitamente alla sussidiarietà orizzontale, affermati simbolicamente dal provvedimento del 5 per mille, condizioni per una responsabilizzazione delle comunità locali. Tutto ciò segnala l’esistenza di una nuova filosofia economica che si sta affermando a livello internazionale. Se questa filosofia si affermerà giungendo anche a rilanciare i salari, vero tallone di Achille dell’economia italiana, si potrà vedere una strada non effimera per uscire, non solo dalla crisi finanziaria internazionale, ma anche dalla stagnazione italiana, ad onta di chi si ostina ancor oggi a perseguire modelli ormai desueti.



(Il Giornale, 02/10/2008)

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