«Come abbiamo difeso i diritti[…], e sostenuto che un governo liberale dee lasciarne libero l’esercizio, così del pari diciamo, che tutte le anime generose che vogliono fare del bene, e, per non uscire dal nostro argomento, vogliono istituire e mantenere del proprio scuole e collegi d’educazione, n’hanno un naturale diritto, e deve esserne lasciata loro la piena libertà d’esercitarlo».



A. ROSMINI, volume IV delle Opere (in Opuscoli Politici, Roma, 1978, p 208 ss.)

Ci sembra questa una chiave di interpretazione adeguata per analizzare quanto emerso nel Primo Rapporto CNEL/ISTAT sull’economia sociale (Roma, giugno 2008) che “fa sintesi” in un unico documento di rilevazioni che nel corso degli anni sono state effettuate su campioni specifici e settoriali di organizzazioni non profit.



Il Rapporto fotografa un’esperienza culturale, prima ancora che politica, di istituti, aggregazioni, istituzioni che, a vario titolo, indirizzano la loro attività e i loro servizi a favore della comunità. Si tratta di realtà impiegate per conseguire scopi non di lucro nel pieno rispetto della destinazione dei patrimoni, che spesso ne definiscono l’essenza. In questo modo, si realizzano gli obiettivi “statutari” stabiliti dai cittadini e dalle loro organizzazioni, che permettono di superare la dicotomia reddittivizzazione/non lucratività oramai anacronistica in un ordinamento giuridico ed economico in cui i singoli individui desiderano “riappropriarsi” di patrimoni che ad essi appartengono. In questa dimensione, lo Stato, quindi, non deve essere considerato il fine, bensì il mezzo attraverso il quale la persona umana e le aggregazioni sociali cui essa dà vita, trovano la loro realizzazione.



Non si tratta di reinventare la realtà sociale o di sostituirsi all’opera dei corpi sociali già presenti ed attivi sul territorio. Al contrario, occorre promuovere l’attività di tali realtà aggregative ed eventualmente integrarla laddove essa non è in grado di arrivare efficacemente. La variegata gamma di organizzazioni che il Rapporto rileva dimostra la vitalità di un tessuto civile e sociale che, sia in termini storici, sia in termini di radicamento nella popolazione, può invero contare pochi “competitors” a livello europeo. Tuttavia, sono necessarie alcune puntualizzazioni, che possono aiutare a comprendere quali possibili rotte intraprendere per rafforzare maggiormente una simile realtà. Affinché le realtà sociali che prendono forma dall’unione dei cittadini possano rispondere efficacemente ed adeguatamente alle domande e ai bisogni che nascono dalla società civile, esse debbono godere di una effettiva autonomia nei confronti dei pubblici poteri e perseguire così i loro specifici interessi in rapporto di leale collaborazione fra essi, subordinatamente alle esigenze del bene comune. In questo contesto, una menzione particolare meritano i finanziamenti previsti a favore delle organizzazioni non lucrative.

Il Rapporto evidenzia le entrate e le uscite in funzione delle tipologie giuridiche, del territorio e dell’“anzianità” dell’organizzazione, ma non segmenta le componenti di entrata. I finanziamenti giocano indubbiamente una quota consistente delle entrate complessive delle realtà non profit e sono particolarmente utili in quanto modalità di sostegno che l’ente pubblico decide di erogare, soprattutto in due casi:

1)dare la possibilità ad entità organizzative nuove ovvero che non si siano potute ancora presentare al settore dei servizi, di costituirsi e proporsi sul “mercato

2) fornire la possibilità agli enti non profit, la cui presenza sul mercato è già consolidata da anni, per esempio in forza di convenzioni intercorrenti con l’ente pubblico, di sperimentare un nuovo ambito di intervento e differenziare così la loro offerta.

Nonostante gli indubbi aspetti positivi introdotti dai finanziamenti è opportuno segnalare qualche aspetto critico degli stessi. Invero, se da un lato i finanziamenti in argomento permettono l’attivazione di progetti/iniziative/opere, che difficilmente sarebbero in grado di trovare autonomamente le risorse finanziarie, dall’altro, essi sottendono il rischio di aumentare la dipendenza dai finanziamenti della Pubblica Amministrazione, riducendo, conseguentemente, al minimo indispensabile, il margine di intraprendenza e di protagonismo tipico delle organizzazioni non profit. Risulta, pertanto, fondamentale che i soggetti, ai quali vengono affidati i finanziamenti, siano in grado di trasformare quella che può essere una sperimentazione o un tentativo di riposta ad un bisogno, in un progetto stabile e duraturo, avendo sempre la priorità di rispondere effettivamente alle necessità e alle esigenze della popolazione e non al “fabbisogno” della Pubblica Amministrazione.

A questo proposito, è forse opportuno riportare quanto affermato da alcuni deputati in occasione del dibattito precedente all’approvazione della legge sulle Opere Pie del 1862: «[…] Vogliamo noi perseverare nella presunzione governativa di saper tutto, di veder tutto, di provvedere a tutto attraverso i monti ed il mare? […] Signori, noi non temiamo che la libertà sia lasciata alle opere pie, come non temiamo la libertà dell’insegnamento: noi accettiamo la concorrenza di tutti ed in tutto, noi crediamo che da ciò ne avrà trionfo la verità, la giustizia, l’utile pubblico[…]».