Al terminare del decennio ottanta del Novecento, negli Usa, allorché più di mille casse di risparmio fallirono, si diede vita a una agenzia che rilevò i cosiddetti toxic assets alle banche in crisi e ne riformulò, dove possibile, la struttura. Ciò consentì al bilancio statale statunitense di ripagare al 60-70% le spese sostenute con quella sorta di “pubblicizzazione” delle sofferenze bancarie.
Il piano Paulson, presentato nei nostri giorni più cupi della crisi d’instabilità finanziaria, riproponeva su vastissima scala quella ricetta. La Federal Reserve era d’ accordo: ciò avrebbe costretto le banche Usa a disvelare tutti i loro arcani imperi bilancistici, a compiere un’operazione di straordinaria chiarezza e avrebbe posto le basi per un risanamento “da buona governance” che avrebbe indicato al mondo una via di fuoriuscita possibile dall’ instabilità finanziaria. E ciò senza procedere a una vera e propria nazionalizzazione, non solo degli assets pericolosi, ma dell’ intero o di parte del capitale bancario.
Questa via è stata battuta politicamente dall’accoppiata anglogermanica inusitata e veramente imprevista Gordon-Merkel: entrambi leader sotto l’incombere di una prova elettorale difficilissima, e protesi, quindi, a soffocare ogni pericolo d’instabilità crescente (come era inevitabile per un breve periodo iniziale con la soluzione Paulson) e a stimolare nel contempo un consenso elettorale che si fondasse sull’eliminazione del panico finanziario in forma definitiva.
Questo processo di consolidamento e di parziale risoluzione temporanea della crisi finanziaria mondiale avviene al prezzo di una distorsione della concorrenza assai grave, soprattutto a causa dell’assenza di una cultura della governance nella maggior parte degli istituti e nel reticolo di intrecci siamesi e, in definitiva, nel grumo di conflitti di interessi che ne derivano. Ma l’intervento dello Stato che si delinea in tutti i provvedimenti annunciati via via su scala mondiale per dar soluzione alla crisi, non è affatto una forma di neo socialismo. Lo Stato agisce, sì, ma sotto le spoglie del neo-patrimonialismo. I salvataggi previsti “via nazionalizzazione” hanno posto su nuove basi la questione del rapporto tra economia e politica. Essa è esplosa in tutto il mondo con una forza imprevista. Sembra che la quintessenza del capitalismo anglosassone, ossia la contendibilità della proprietà, abbia perso la sua spinta propulsiva. Ma, a ben vedere, non si tratta dell’inizio di una nuova era della proprietà collettiva. Si tratta invece della creazione di un nuovo capitalismo politico, ossia di una proprietà dei beni controllata dalle classi politiche.
Spaventate dalle liberalizzazioni e dalle privatizzazioni, e anche da un’ondata di antipolitica classista che ha favorito solo quella parte di esse che poteva autosostenersi grazie alle ricchezze proprie, le classi politiche di questo nuovo secolo si sono immediatamente ricompattate per creare un nuovo “Stato imprenditore finanziario” che non potrà che far dilagare nuovamente la diade Stato-mercato che tanti danni ha arrecato al sistema della crescita e allo sviluppo. Si rischia in tal modo di schiacciare il terzo attore che non a caso ha evitato l’instabilità in cui siamo immersi: il principio e la praxis della comunità, che opera anche nell’intermediazione finanziaria. Parlo di tutte quelle forme proprietarie della sussidiarietà, come la cooperazione di credito, il not for profit, le imprese morali. Questa soluzione della crisi minaccia tutto un mondo che stava rinnovandosi e lo sottopone a un pesante attacco istituzionale. Ma esso vincerà culturalmente: e sarà proprio questa errata risposta a farne risaltare la benefica alterità contro gli autori del massacro degli innocenti.