La sorpresa è arrivata nell’after hours di giovedì 16 ottobre, quando il titolo di Unicredit ha cominciato a rimbalzare positivamente dopo aver passato un’altra giornata drammatica, scendendo del 13% e fissando il suo valore di pochi centesimi sopra i due euro. Solamente un anno mezzo fa, un’azione Unicredit sfiorava i 7 euro e mezzo di valore.



A mercato chiuso di giovedì arrivavano i primi comunicati ufficiali. Le banche del Colonnello Gheddafi erano salite nel capitale della banca di piazza Cordusio da una cifra marginale, collegata alla vecchia Capitalia, a una partecipazione del 4,23%, diventando così i secondi azionisti. Pochi hanno sottolineato che, in questo caso, la partecipazione da finanziaria diventa strategica. Piuttosto si faceva notare, da parte del management di Unicredit e poi da tanti altri, l’attrattività del vecchio istituto di credito, del nobile Credito Italiano (banca di riferimento della Fiat, che ne possedeva il 10%), diventato in tempi di globalizzazione Unicredit dopo una grande espansione in Germania, Austria, Polonia e la fusione con Capitalia.



Soddisfazione apparente generalizzata, anche se due giorni prima il presidente della Consob, Lamberto Cardia, aveva parlato di “rischio Opa” per l’Italia e, il giorno prima, da Bruxelles, il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, aveva ribadito lo stesso concetto, mettendo tutti in guardia sull’arrivo dei Fondi sovrani in un mercato dove le aziende italiane sono sotto quotate per la tempesta finanziaria in atto da ormai un anno.

Ma si sa, il colonnello di Tripoli è un amico, fin dalla sua ascesa al potere nel 1968, probabilmente anche aiutato dai servizi italiani. Ed è sempre stato attento ai rapporti economici con l’Italia, come nel 1976, quando intervenne a “ossigenare” le casse senza fiato della Fiat e poi ne uscì, su pressione degli americani che avevano collocato la Libia nella lista degli “stati canaglia”, con una ricca plusvalenza. Anche i “missili di Pantelleria” e altre questioni collegate ai rapporti con Malta non hanno mai incrinato nel profondo i rapporti tra l’ex colonizzato e la vecchia Italia coloniale. Troppo importante il petrolio e il gas del Colonnello, troppo necessarie le sue “royalties” che vengono dal greggio più leggero, quasi naturalmente raffinato, del mondo. In fondo Gheddafi è sempre, con più del 7%, un azionista della Juventus e recentemente, sotto la sua grande tenda, molti italiani importanti hanno discusso di tutto e di più. In definitiva, “pecunia non olet”.



Però, qualche problemino esiste e vale la pena di scandagliarlo. Innanzitutto c’è da osservare che è probabile che presto i Fondi sovrani libici diventeranno i primi azionisti di Unicredit, attestandosi su una quota del 5% magari di poco superiore alla Fondazione Cariverona e poi facendo il loro ingresso in Consiglio di amministrazione e con un riconoscimento significativo nella governance della banca. In più Unicredit ha un quota significativa in Mediobanca e in Generali, su cui a questo punto si dovrà pure ragionare.

Ma più in generale, occorre anche vedere che cosa provocherà, negli assetti della finanza italiana, questa mossa che pare targata da un asse preferenziale tra piazza Cordusio a Milano e via Nazionale a Roma, dove ha sede la Banca d’Italia. Tutto questo potrebbe anche non essere motivo di grande soddisfazione sia per l’attuale governance di Mediobanca, sia per il ministero dell’Economia. Proviamo a comprenderne il perché.

Vale la pena di ricostruire quello che è accaduto, cercare di formulare ipotesi e capire quello che potrà accadere. È da mesi che si parla delle difficoltà di Unicredit e del suo amministratore delegato, Alessandro Profumo, l’alfiere dei McKinsay-boys in Italia. Ma tutto scivola via nell’informazione italiana, anche il grande affare dei derivati, e quindi si parla soprattutto della bolla immobiliare, dei subprime che intossicano Wall Street. Il fatto è che la crisi subisce un’accelerazione drammatica il 16 settembre, quando i dirigenti di Lehman Brothers portano i libri in tribunale per il fallimento e gli impiegati lasciano le loro sedi con gli scatoloni. Lunedì 29 settembre, da New York la crisi deflagra in tutta Europa: è un “black-monday”, con il primo grande ribasso, e alla Borsa di Milano Unicredit comincia la prima delle tre settimane di passione.

Al termine della prima di quelle tre settimane, l’amministratore delegato di Unicredit sembra incerto nelle sue comunicazioni. Parla di “crisi sottovalutata”, di “non necessità di aumento di capitale” , di “solidità e di liquidità della banca”, mentre già viene convocato un consiglio di amministrazione straordinario, di domenica, che decide un aumento di capitale di 6,6 miliardi di euro con la partecipazioni delle Fondazioni presenti in Unicredit e un intervento anche di Mediobanca e Generali.

Ma il titolo continua a scendere. Alessandro Profumo è deciso a non lasciare, malgrado le voci di sue dimissioni. Resta sulla “plancia di comando”, proseguendo nella sua linea irremovibile, ben difesa dai media italiani, così come quando aveva deciso la non partecipazione di Unicredit a Telco (la holding di Telecom Italia) e così come aveva fronteggiato (solo all’inizio di settembre) il cambio di governance (l’abbandono del duale e il ritorno al tradizionale) di Mediobanca. C’è solo il terribile Financial Times on-line che “rompe le uova nel paniere”, sferrando un attacco inconsueto alla strategia dell’amministratore delegato di Unicredit con un’affermazione tutta da decifrare: c’è qualche cosa di più profondo in quella banca.

Venerdì 10 ottobre, stando alle indiscrezioni, è una giornata particolarmente difficile per Unicredit. La banca avrebbe problemi di liquidità e scarica su Bankitalia un miliardo e ottocento milioni di euro di “titoli problematici”. Niente di particolare, in fondo in questo periodo, dato che la celebre Ubs ha scaricato robaccia per 60 miliardi di franchi svizzeri sul governo di Berna e ha già operato una svalutazione di 40 miliardi di franchi svizzeri.

Ma i problemi di Unicredit sembrano tanti. Alcune voci parlano con inquietudine di quello che “c’è dentro” alle filiali tedesche, polacche e austriache di Unicredit e c’è chi arriva a parlare di “import-export” di tossicità tra Italia e Germania. Anche se la posizione dell’amministratore delegato non è messa in discussione da nessuno, sia dagli amici, sia da quelli che amici non sono: “Profumo è come la cuspide di una cattedrale gotica. Se va via lui viene giù tutta la banca”.

A questo punto si aprono scenari e interpretazioni da Italia rinascimentale, anche se siamo nell’anno del Signore 2008. Conviene a tutti transennare la cuspide, magari fino a primavera 2009, per poi regolare i conti nel futuro assetto di potere? Difficile sapere la verità, che in questo caso presenta varie facce. Seguiamo per un momento solo la cronaca.

I libici arrivano dopo che Profumo ha informato il Governatore Mario Draghi e, a cose fatte, il sottosegretario Gianni Letta. Ma nella situazione di emergenza attuale, dopo le conferenze stampa unificate, con Berlusconi, Draghi e Giulio Tremonti, è proprio appropriato non informare anche il ministro per l’Economia? C’è chi parla, anche se non si sa se la voce sia veramente credibile, di un Tremonti “furioso”. E avere di fronte, in questi tempi, il ministro dell’Economia può essere un rischio sia per il management di piazza Cordusio e forse anche per le autorità di via Nazionale.

Ma c’è chi interpreta il tutto come frutto di un’induzione, o sarebbe meglio dire di un trappolone, perpetrato dagli avversari di Profumo, con il “tocco finale” del Colonnello di Tripoli. Bisognerebbe infatti capire bene chi ha cavalcato, nelle tre settimane di passione, al momento giusto, l’ondata ribassista su Unicredit (è passato di mano il 10% del capitale) magari per assestare il colpo di grazia alla “cuspide della cattedrale”. Per ora le ricerche sul “short selling” si sono rivelate, ufficialmente, evanescenti. Si parla di Londra come luogo e della francese Chevreux come attore. Indizi incerti per immaginare un’operazione di “andata e ritorno” come si diceva in Piazza Affari ai tempi della “grida” fatta da alcuni anti-profumiani.

Il problema è ora attendere i prossimi giorni e vedere se il titolo reagirà ancora bene, così come è avvenuto dopo l’annuncio libico. Ma non c’è dubbio che sapremo solo a primavera, dopo altri mesi di passione, se Profumo è un “drago” o un amministratore delegato “commissariato”.