Nelle ultime settimane si sono susseguite analisi, più o meno approfondite, sulle cause della crisi finanziaria e sui possibili rimedi. Per la prima volta i temi della finanza stanno interessando non solo gli addetti ai lavori, anzi c’è una forte sete di conoscenza da parte di un pubblico sempre più vasto. Un dato senz’altro positivo perché se ci sono argomenti di solito affidati solo alle burocrazie e non sottoposti alla verifica di un dibattito politico aperto, sono proprio quelli attinenti alle regole che governano l’economia.
Le norme in uso il più delle volte sono infatti figlie di decisioni europee o di accordi internazionali calati dall’alto: basti solo pensare alla modifica quasi totale del libro V del codice civile, alle regole per la redazione dei bilanci delle società, a Basilea 2, ai principi contabili, e si potrebbero aggiungere un’infinità di altri esempi.
In realtà si parla di economia, anche nei talk show più seguiti, ma sempre in termini generici e mai con cognizione dei fatti che nella pratica quotidiana toccano la vita di persone e imprese. Quindi la questione della democrazia e il ruolo dell’informazione costituiscono un primo problema di cui bisognerà tener conto in futuro.
Altri due aspetti mi paiono importanti per la loro rilevanza dal punto di vista di un giudizio culturale: il primo riguarda l’intervento dello Stato in economia, il secondo l’importanza della fiducia per un corretto funzionamento del mercato.
La partecipazione dello Stato, oggi, nel capitale delle banche credo sia stata un bene, ma solo per il fatto che la scelta è stata dettata dalla logica del male minore. Si è trattato di puro e opportuno pragmatismo al di là di quelle che sono state le singole e specifiche responsabilità. Per tale ragione non salvare Lehman Brothers è stato un errore: si stima infatti che il danno così causato sia di gran lunga maggiore di quanto sarebbe costato il suo salvataggio.
Ci siamo comunque trovati di fronte al fallimento di una realtà che solo nominalmente poteva essere definita mercato. Quello vero è fatto da soggetti che in totale libertà si scambiano beni e servizi dentro un quadro di regole soprattutto sotto il profilo della trasparenza dal lato dell’offerta. Ciò implica la creazione di condizioni di adeguata consapevolezza per l’acquirente senza l’utopia dell’eliminazione del rischio da più parti oggi irresponsabilmente invocata.
È solo il caso di sottolineare che l’intervento dello Stato, che offre la possibilità di un risparmio garantito, genera debito pubblico e riduce di molto le chance di crescita. La storia docet. Vedo infatti il rischio concreto che possa farsi largo un pensiero che, speculando su fallimenti dovuti all’inadeguatezza di regole e controlli, e rincorrendo una facile demagogia sulle tutele sociali, finisca con lo scoraggiare una sana cultura imprenditoriale aprendo una breccia pericolosa.
Perciò è opportuno che lo Stato torni al più presto a fare il regolatore, possibilmente non in modo invasivo: è bene ricordare che la crisi attuale è scoppiata mentre erano pienamente vigenti le regole di Basilea 2 e dopo l’introduzione dei nuovi principi contabili, entrambi giustificati dalla necessità di maggiore trasparenza e di una più esatta misura dei dati riportati nei bilanci. Per gli operatori finanziari sono stati tra l’altro anni di costosi investimenti e di inutile burocratizzazione delle loro attività.
Per ciò che riguarda invece la fiducia, quanto è accaduto ha mostrato in modo inequivocabile che non la può dare né lo Stato né qualsiasi altra autorità, neppure stimolandola attraverso l’iniezione di ingenti somme di denaro. È la materia prima del mercato, anche in presenza di forti garanzie contrattuali. Appartiene alla società che la costruisce negli anni. E proprio la necessità di favorire un clima di fiducia è una delle questioni irrisolte aperte dal processo di globalizzazione, benché non venga mai messa in evidenza dagli esperti come problema. Su questo aspetto occorrerà riflettere e lavorare molto recuperando il significato di produrre beni e servizi come espressione del desiderio di concorrere, attraverso il proprio genio e il proprio talento, alla costruzione della storia. Relegando il profitto a semplice misuratore di efficienza in una libera e leale competizione. Basta pensare cosa ha voluto dire la moda per il nostro Paese.
Proviamo solo a immaginare un mondo che non avvertisse più la necessità di guadagnarsi la fiducia dell’altro, quindi senza avventure imprenditoriali. Una società con tanti titoli di Stato in portafoglio e posti garantiti, nell’illusione di aver così eliminato alla radice ogni presupposto di ingiustizia. Pensiamoci bene, con le scelte di oggi potremmo gettare i semi di una simile amara prospettiva.