È oramai assodato che la crisi dei mercati finanziari, le cause e gli effetti, chiameranno l’Europa ad affrontare tre ordini di problemi: le conseguenze dei titoli “tossici” statunitensi che hanno inciso sulla qualità degli attivi patrimoniali degli intermediari finanziari; le insolvenze sui mutui del mercato immobiliare europeo che ha oramai assunto valori insostenibili e che quindi determinerà una correzione al ribasso degli asset immobiliari (in alcuni casi in termini reali, in altri in termini nominali); i rischi di recessione economica, aggravata dalla indisponibilità degli istituti di credito a concedere finanziamenti o a ristrutturare le posizione debitorie, che comporteranno nel prossimo periodo default aziendali destinati ad accrescere le perdite e le sofferenze bancarie.



I primi due problemi, unitamente all’opacità dei mercati di riferimento, oltre a determinare una significativa erosione del patrimonio degli intermediari e una progressiva riduzione dei loro corsi azionari, hanno minato la fiducia degli investitori e determinato un aumento indiscriminato del costo del finanziamento per le banche e fortissime tensioni sul mercato interbancario. Le banche centrali, che hanno l’obiettivo di regolare il costo del denaro in modo da assicurare l’adeguatezza della liquidità presente sul mercato alle esigenze degli scambi economici, per evitare che il crollo della fiducia reciproca fra gli istituti bancari paralizzasse il mercato del credito, sono intervenute in diverse soluzioni aumentando la quantità di liquidità immessa sul mercato, attraverso il taglio dei tassi di interesse (trattasi di diverse centinaia di miliardi di euro nel sistema finanziario globale a basso costo). Tali interventi non sono stati sufficienti ad attenuare la sfiducia reciproca interbancaria, tant’è che l’Euribor (il tasso interbancario di riferimento) ha raggiunto livelli record mai raggiunti prima. A ciò si aggiunga che la crisi che ha colpito inizialmente il comparto bancario delle borse mondiali si è estesa anche agli altri comparti, determinandone una progressiva riduzione dei corsi azionari. Questo anche a causa della necessità dei fondi di ridurre le proprie posizioni debitorie attraverso la vendita delle partecipazioni in attività diverse da quelle colpite direttamente dalla crisi.



La situazione di difficoltà delle banche, e qui arriviamo al terzo problema, ha poi creato una restrizione nell’offerta del credito con le evidenti conseguenze sull’economia reale a sua volta colpita da una crisi dei consumi dovuta, fra gli altri, a una progressiva riduzione del reddito disponibile, eroso dal costo per le abitazioni, conseguenza di una crescita del mercato immobiliare drogato dalla finanza virtuale.

Al fine di fronteggiare lo scenario di riferimento, nell’ambito dell’Ecofin del 7 ottobre scorso i ministri delle Finanze dell’Ue hanno esaminato l’ipotesi di costituire un fondo europeo destinato alla ricapitalizzazione e al sostegno delle banche in crisi ma non hanno raggiunto un accordo in tal senso. Tale misura è stata adottata dal Regno Unito l’8 ottobre e il Governo italiano, con decreto legge n. 155 del 9 ottobre, ha previsto la possibilità per il ministero dell’Economia di intervenire negli aumenti di capitale delle banche che presentano una situazione di inadeguatezza patrimoniale accertata dalla Banca d’Italia e di rilasciare garanzie statali a favore dei depositanti delle banche italiane per un periodo di 36 mesi.



Successivamente, i governi dell’Eurogruppo hanno raggiunto l’accordo sulle misure per fronteggiare la crisi e ripristinare la capacità delle banche di assicurare i necessari finanziamenti all’economia reale e quindi al mondo produttivo. Il Governo italiano, in attuazione dell’accordo, ha emanato un decreto legge che autorizza il ministero dell’Economia a concedere garanzie statali all’emissione degli strumenti di debito delle banche, nonché ad effettuare operazioni di scambio fra titoli di Stato e strumenti finanziari di nuova emissione. L’insieme delle misure adottate hanno sì sortito effetti positivi nei rapporti interbancari e quindi sul tasso interbancario di riferimento, ma i timori di una recessione globale incidono negativamente sulla propensione del sistema bancario a concedere i necessari finanziamenti al sistema produttivo e hanno reso i corsi azionari estremamente volatili.          

In momenti di crisi come quello attuale, solo i governi dispongono di risorse sufficienti ad adottare le soluzioni necessarie ad uscirne, a maggior ragione se il mercato del credito verso l’economia reale è influenzato dai timori di recessione che rendono più sicuro l’impiego delle risorse disponibili in titoli di Stato. Proviamo ora a vedere cosa accadde alla fine degli anni ‘20 del secolo scorso e quale furono le reazioni del governo e dei mercati. In quel periodo le grandi banche universali si trasformarono in vere e proprie capogruppo di vasti conglomerati industriali. La caduta della domanda e dei livelli di produzione aveva messo in grave difficoltà le grandi imprese legate alle banche. Il fallimento delle imprese avrebbe condotto all’insolvenza gli stessi istituti di credito i quali continuarono a sostenere finanziariamente le suddette aziende nella vana speranza che la crisi si rivelasse di breve durata. Nel 1931, anche a seguito del ritiro dei depositi da parte degli stranieri, le grandi banche si ritrovarono prive di liquidità e nell’impossibilità di continuare a erogare crediti. Al fine di evitare i disastri di Austria, Germania e di altri paesi dell’Europa centrale, le autorità monetarie del nostro paese somministrarono alle banche la liquidità necessaria ad evitarne il fallimento. Contestualmente, le banche furono indotte a cedere allo Stato le proprie partecipazioni nelle imprese industriali. Poiché non era possibile poi collocare tali partecipazioni sul mercato, nel gennaio del 1933, lo Stato italiano costituì l’Istituto per la ricostruzione industriale (l’Iri) che aveva la funzione di risanare le aziende precedentemente detenute dalle banche. La scelta tecnica era quella di ideare uno strumento di stampo privatistico temporaneo, slegato dalla burocrazia statale, che avrebbe poi dovuto ricollocare ai privati le partecipazioni. Successivamente, nel 1937, visto il perdurare della crisi economica e l’incapacità della borsa italiana di assorbire le partecipazioni, l’Iri venne dichiarato ente permanente.

Veniamo ora alle ipotesi di sostegno all’economia reale adombrate in questi giorni. In effetti, le grandi imprese hanno la necessità di ricapitalizzazioni difficilmente realizzabili attraverso interventi sul mercato, ma allo stesso tempo un ritorno al passato con una maggiore presenza dello Stato nell’economia ci riporterebbe a logiche monopolistiche che oltre a incidere negativamente su una futura crescita economica, penalizzerebbe oltre misura il tessuto produttivo, fiore all’occhiello del nostro paese, rappresentato dalle Pmi, anch’esse affamate di risorse per lo sviluppo.

Una possibile soluzione potrebbe essere quella di combinare una serie di interventi: il progetto della Regione Lombardia di sostegno alle piccole e medie imprese per il tramite di Finlombarda Spa potrebbe essere mutuato da altre realtà territoriali; lo Stato potrebbe, attraverso appositi veicoli societari con un destino ben definito e preferibilmente quotati o a partecipazione mista, provvedere alle ricapitalizzazioni delle grandi imprese sottoscrivendo “azioni di sviluppo” prive del diritto di voto, ma con maggiori diritti di partecipazione agli utili, convertibili in azioni ordinarie in caso di mancato rispetto dei programmi industriali. Le banche potrebbero essere incentivate a concedere il credito alle imprese attraverso interventi fiscali finalizzati a ridurre il costo del rischio di insolvenza che potrebbero essere rappresentati dalla detassazione di una parte degli interessi attivi correlati a tassi di interesse inferiori ad un dato ammontare comunemente applicato dal sistema. Il tutto dovrebbe essere combinato all’istituzione di efficaci funzioni di controllo interne ed esterne, non necessariamente affidate al pubblico, che abbiano l’obiettivo di monitorare il rispetto delle finalità delle misure adottate. Se poi tali interventi fossero coordinati e condivisi a livello europeo si potrebbe perseguire l’obiettivo di una maggiore efficacia delle misure e dei sistemi di controllo adottati.

Quanto accaduto non deve essere interpretato come il fallimento del libero mercato, ma riflette il fallimento di un mercato le cui regole sono state dettate dall’assenza di un rapporto equilibrato fra politica e affari. Un ritorno allo statalismo significherebbe dare alla capra il compito del giardiniere. Sicuramente in questa fase è essenziale l’intervento dei governi a sostegno dell’economia, il che non confliggerebbe con gli insegnamenti dei grandi pensatori liberali, ma sarebbe opportuno trarre insegnamento dai fallimenti del mercato per disegnare un ordinamento economico e commerciale che assicuri un sano libero mercato.