È nelle grandi crisi, che occorre porsi i grandi interrogativi. Nelle grandi crisi infatti si mettono in atto risposte in tempi obbligatoriamente rapidi, se non concitati. E si compiono balzi anche radicali, rispetto ai paradigmi precedentemente rispettati in maniera sin troppo ortodossa.

Nessuno può dirsi certo delle conseguenze ultime che scaturiranno dalle terapie d’emergenza per affrontare le emorragie banco-finanziarie, perché tutti intanto pensano che la cosa essenziale è arrestare il rischio di dissanguamento. Ma terapie che a breve ottengano anche l’arresto del peggio, ma gettino insieme i semi di una successiva paralisi lenta e progressiva dell’organismo salvato, sono comunque terapie sulle quali interrogarsi seriamente.



Io credo che Graziano Tarantini abbia profondamente ragione, nel richiamare noi tutti a una riflessione profonda, intorno al rischio che lo Stato da invocato salvatore dell’oggi divenga poi – come quasi sempre è stato – nemico del meglio e del bene, avverso a chi sa e vuole fare in quanto persona, in teoria garante di solidarietà ed eguaglianza, in realtà arido livellatore secondo ideologie di questa o quella scuola di perfettismo strutturalista. Non mi fa molta differenza, che sia socialismo, comunismo o tecnocrazia di enarchi laico-illuministi innamorati dell’Aufklarung: in tutti i diversi casi, sappiamo già bene dalla storia che cosa se ne debba desumere, dal loro sostituirsi alla libera interazione dell’uomo come entità collettiva di minoranze organizzate e autoselezionate in nome del presunto “bene comune” .



Il disastro regalatoci dalla finanza ad alta leva finanziaria e bassa congruità patrimoniale delle cinque grandi banche d’investimento americane ha almeno tre conseguenze che a mio giudizio non bisogna esitare a definire “epocali”. Finisce un intero modello di intermediazione finanziaria: un’idea di crescita vorticosa costruita questa volta non più sul rapido crescere dei consumi sostenuti dal debito pubblico come da noi, ma da quello privato, trasformato in alta redditività del capitale con prodotti finanziari sintetici e tecniche di collateralizzazione sempre più in spregio ai fondamentali, per i quali occorre un rapporto prudenziale tra propri asset patrimoniali, impieghi intermediati e rischi di controparte.



Finisce un intero equilibrio geopolitico, basato su una crescita indebitata americana da una parte, e sull’interesse della Cina a reggerne gli squilibri comprandone asset denominati in dollari per miglia di miliardi di dollari, pur di guadagnare in tempi rapidi nuovi e sicuri mercati per le sue merci a basso prezzo.

Finisce, altresì, un’intera concezione del “rischio” alla base dello sconto del capitale come di tutti i fattori che concorrono alla produzione. State attenti a quest’ultimo punto, perché chi dice che un conto è la finanza e un altro la produzione dice solo parzialmente la verità. L’imprenditore è colui che arbitra mezzi definiti per fini prefissi, ma lo fa scontando il rischio separandolo dall’incertezza. Il “rischio” è categoria decisiva per ogni attività economica, ed esso è SOLO finanziariamente definito non da oggi, ma da sempre. Poiché si tratta di ridefinire modalità di valutazione condivisa del rischio per intere classi di impieghi e prodotti finanziari, la conseguenza degli Ias o di una Basilea3 non riguarda solo banchieri e finanzieri, ma CHIUNQUE abbia in mente di esercitare QUALUNQUE attività d’impresa.

Il disastro attuale è che l’aver affermato “nessuna banca può fallire” evoca inevitabilmente un paradiso senza inferno o un governo senza opposizione. Un mercato senza fallimento è esattamente analogo. È una prospettiva autocratica, è la terra ideale per uno Stato che torni a risentirsi “dio”.

Non significa affatto, per chi la pensa come noi, dire no a tutto ciò che solo lo Stato può fare oggi, per ridare agibilità alla liquidità interbancaria e per evitare alle imprese le conseguenze disastrose della stretta creditizia. Ma significa aver ben chiaro in testa, che tutto ciò deve avvenire senza – o nel minor grado possibile – che lo Stato torni a essere e a sentirsi “padrone” . Padrone delle banche e delle imprese, significa essere padrone della vita degli uomini, delle loro possibilità di tradurre in atti e fatti concreti le loro aspirazioni.

Saper dire la giusta misura di “grazie no”, in queste prossime settimane e mesi, sarà il netto discrimine tra politici che abbiano a cuore l’uomo, e altri che contrabbandano per lotta alla paura il proprio desiderio di potenza su altri uomini.