Continua il dibattito su crisi di fiducia e ruolo dello Stato aperto dall’articolo di Graziano Tarantini. Dopo gli interventi di Oscar Giannino e Carlo Secchi con Carlo Altomonte, il sussidiario.net ha intervistato Giovanni Marseguerra, docente di Economia politica nell’Università Cattolica di Milano.
Professor Marseguerra, nel suo articolo Tarantini affronta il tema della crisi di fiducia, definita come «materia prima del mercato» e quindi fattore fondamentale per il suo corretto funzionamento. Che ne pensa?
Concordo su questo con l’analisi di Tarantini. A me sembra che la ricaduta più negativa della grave crisi finanziaria cui assistiamo oggi sia rappresentata proprio dalla perdita di fiducia reciproca che si respira in modo sempre più palpabile ad ogni livello. Ma vorrei anche andare oltre. La fiducia, che è un collante essenziale della vita sociale, è oggi venuta meno essenzialmente per colpa di comportamenti che nel migliore dei casi possiamo definire eticamente discutibili, ma che molto spesso sono stati scorretti al limite della fraudolenza.
Di «crisi di fiducia» naturalmente hanno parlato tutti, senza però mettere al centro della riflessione la fiducia stessa. Chi e come deve ripristinare la fiducia?
Chi opera nel settore finanziario, ma direi anche nell’economia in generale, deve avere una coscienza etica profonda e deve tenere sempre un comportamento responsabile. Tutto questo negli ultimi anni è mancato, e il risultato è sotto gli occhi di tutti. È prevalso l’egoismo personale sul bene comune. Il ripristino dell’etica della correttezza e della responsabilità è quindi la prima essenziale riforma per riconquistare la fiducia dei risparmiatori. Può sembrare ovvio, ma dobbiamo sempre ricordare che è la finanza che deve servire l’uomo, non l’uomo che deve servirsi della finanza per i suoi fini. È necessaria poi una riforma che serva a ridefinire le regole dell’economia e soprattutto della finanza internazionale. In questo senso ha ragione Tremonti quando dice che non serve una Bretton Woods 2 ma una nuova pace di Westfalia, che 360 anni fa portò ad un nuovo ordine internazionale e alla formazione di quella che oggi potremmo chiamare la prima comunità internazionale.
È il dibattuto tema delle regole.
Abbiamo bisogno di regole nuove ed efficaci perché solamente all’interno di una cornice regolamentare e normativa appropriata un mercato può funzionare. Sotto questo profilo, la crisi ha rivelato come il sistema di vigilanza americana, suddiviso tra diverse autorità non sempre coordinate tra loro, abbia mancato completamente ai suoi compiti istituzionali, mostrando limiti di una gravità inaspettata. Per non parlare poi delle gravissime responsabilità delle agenzie di rating, che hanno allegramente certificato la solidità di bilanci che sani non erano affatto. Dunque, in via di sintesi, per ripristinare la fiducia servono regole efficaci e soprattutto comportamenti eticamente ispirati. Solo così possiamo sperare di uscire da questa stagione di liberismo finanziario sfrenato.
Tarantini sostiene anche che l’intervento dello Stato nel capitale delle banche è stato un male minore. È d’accordo?
Gli interventi degli Stati, date le condizioni che si erano create, sono stati assolutamente inevitabili. Ma non tutti gli interventi sono stati uguali. Negli Stati Uniti sono stati commessi molti errori, con comportamenti non sempre coerenti e meditati. In particolare, aver lasciato fallire Lehman Brothers è stata una leggerezza imperdonabile. Probabilmente il Tesoro americano ha deciso di non intervenire per paura di essere accusato, in un periodo di accesa campagna elettorale, di scaricare oneri troppo pesanti su chi con la finanza non ha avuto mai nulla a che fare. Ma è stata una decisione miope perché le conseguenze di quel fallimento le stiamo pagando tutti, compresi gli americani.
Cosa pensa della posizione assunta dall’Europa?
L’Europa, dopo un iniziale tentennamento, si è dimostrata molto più saggia e lungimirante, mandando segnali chiari di unità e coesione che sono stati ben colti dai mercati. L’Italia poi mi sembra che abbia avuto un ruolo guida nelle decisioni comunitarie. Da noi sono stati fatti interventi molto puntuali ed efficaci, a partire dal decreto che garantisce la tutela del risparmio. Poi è sopraggiunto il timore della recessione, e la paura è ricominciata.
Come deve essere attuato l’intervento dello Stato per non frustrare le potenzialità di crescita del nostro sistema produttivo?
Vorrei ricordare che prima del mercato c’è la produzione. Per intendesi: perché si possano effettuare degli scambi sul mercato, è necessario che prima qualcuno abbia prodotto quello che si scambia. Dunque è il sistema produttivo che è centrale in un sistema economico, non tanto e comunque non solo il mercato. Detto questo, bisogna assolutamente evitare che si instauri un circolo vizioso tra crisi finanziaria e recessione economica. Gli interventi sulle banche sono proprio volti ad interrompere questo meccanismo. Per questo anche è importante continuare ad iniettare liquidità nel sistema, almeno finché la situazione non si sia normalizzata. Poi bisognerà intervenire con piani di stimolo fiscale, riducendo le tasse sia alle famiglie sia alle imprese, per rilanciare i consumi e favorire la produzione. Certo, queste politiche sono più facili per paesi che hanno i conti pubblici in ordine, meno percorribili per chi, come noi, ha un montagna di debito pubblico.
«È opportuno che lo Stato torni al più presto a fare il regolatore, possibilmente in modo non invasivo». Come?
Bisogna stare molto attenti a che non tornino abitudini che fortunatamente oggi abbiamo dimenticato, come quella di uno Stato che interviene pesantemente nella vita dei cittadini togliendo spazio alla società. Non abbiamo certo bisogno di uno Stato che produca panettoni e possegga banche come, ahimè, è accaduto in Italia sino a non molto tempo fa. Di tutto oggi abbiamo bisogno meno che di una maggiore presenza dello Stato nella vita economica del paese. Il che non vuol dire ricorrere sempre al mercato. Una polarizzazione forte dei rapporti economici tra due soli soggetti, Stato e mercato, comporta il rischio che a prevalere siano o il mercato estremizzato nell’individualismo da un lato, o lo statalismo oppressivo delle libertà individuali e sociali dall’altro. Dobbiamo invece puntare su un modello di sviluppo basato sul principio di sussidiarietà, nel quale le istituzioni devono preoccuparsi di creare le condizioni affinché la società, ovvero tutte le espressioni e i soggetti della società, siano quanto più possibile valorizzati. Anche perché questo modello è coerente con la tradizione, la cultura e la civiltà del nostro paese.
Questa crisi avrà ripercussioni culturali? Vede il rischio… di una crisi della cultura del rischio, imprenditoriale o anche finanziaria, che tanta parte positiva gioca e ha giocato nel promuovere lo sviluppo?
Sì, effettivamente questo rischio c’è. Esiste il pericolo che la mentalità statalista riprenda il sopravvento. A evitare questo rischio ci aiuta la dottrina sociale che, con una capacità di anticipazione sempre straordinaria, nell’Enciclica Centesimus Annus ci ricorda che «Non potrebbe lo Stato assicurare direttamente il diritto al lavoro di tutti i cittadini senza irreggimentare l’intera vita economica e mortificare la libera iniziativa dei singoli. Ciò, tuttavia, non significa che esso non abbia alcuna competenza in questo ambito, come hanno affermato i sostenitori di un’assenza di regole nella sfera economica. Lo Stato, anzi, ha il dovere di assecondare l’attività delle imprese, creando condizioni che assicurino occasioni di lavoro, stimolandola ove essa risulti insufficiente o sostenendola nei momenti di crisi».Sono parole oggi di grandissima attualità e che andrebbero tenute sempre a mente, in particolare da chi ha oggi responsabilità di politica economica.