L’attuale crisi (pare ormai non soltanto più finanziaria, ma anche economica) è stata spesso accostata a quella del ’29: le borse crollano, l’economia rallenta, i consumi calano proprio come 60 anni fa.
Aprendo un qualsiasi manuale di economia, è possibile leggere della “cura” usata allora: il New Deal di Roosevelt e il successo delle teorie di John Maynard Keynes, il quale non fece altro che affermare, detto in soldoni, che nei periodi di scarsa occupazione e scarsi investimenti occorre aumentare la spesa pubblica.
Bene, basti ricordare però che si tratta di una teoria, di un modello, che nel corso degli anni ha mostrato anche seri limiti. Questo problema non riguarda solo Keynes, ma in generale la politica economica, nella quale spesso non si fa altro che esercitarsi nella ricerca di modelli e soluzioni da applicare, senza molte certezze (o al contrario con fin troppe certezze) sulle conseguenze che avranno.
Ma volendo anche immaginare di poter riprendere in mano le “ricette” che hanno sollevato le sorti dell’economia dopo il ’29, bisogna stare molto attenti al fatto che nel frattempo il mondo è cambiato. La globalizzazione, l’aumento del commercio e dello scambio di capitali nel mondo ha creato delle interconnessioni che allora non esistevano.
Inoltre, fatto molto importante, in Europa nel 1992 è stato firmato il Trattato di Maastricht con il quale i Paesi europei si sono impegnati a mettere un freno al loro debito pubblico legandolo alla propria capacità di produrre ricchezza (un principio abbastanza elementare che qualsiasi “buon padre di famiglia” potrebbe comprendere: non spendiamo più di quanto portiamo a casa o che possiamo rimborsare in tempi non troppo lunghi e certi).
Infine, l’adozione della moneta unica ha tolto ogni possibilità di utilizzare l’economia monetaria come strumento di aiuto allo sviluppo.
In sintesi: i Governi non possono aumentare più che tanto la spesa pubblica e non possono svalutare la propria moneta per favorire le esportazioni.
Sembrerebbe quindi non esserci speranza. Tuttavia ritengo che le soluzioni non vadano cercate solamente nel campo meramente economico/finanziario, ma anche in quello culturale.
La fiducia
I modelli economici infatti non sono altro che “costruzioni” umane, e come tale sono migliorabili ma non perfetti. Anzi, a volerla dire tutta risentono senza dubbio dell’imperfezione umana.
Ha fatto quindi bene Graziano Tarantini a porre l’accento sul problema della fiducia all’interno del mercato. La stessa crisi del credito ne è collegata. Del resto nel significato stesso della parola “credito” non è forse compresa una buona dosa di “fiducia”? E che dire poi del “rischio” (fattore principale del “fare impresa”): anch’esso ha molto a che fare con la “fiducia”.
Il mercato del resto è fatto da persone, da uomini, e ciò che il mercato fa, il suo andamento e comportamento, è strettamente collegato con quello delle persone.
L’aver spinto a tutti costi la ricerca del massimo profitto ha spinto i “grandi” del mercato a utilizzare strumenti in cui la “fiducia” non contava niente (posso emettere un mutuo ad alto rischio e fidarmi che questo venga senz’altro rimborsato, e non contento “ributtare” questo credito sul mercato scommettendo che verrà comunque rimborsato?) e in cui il “rischio” diventava solamente “azzardo” e non qualcosa in cui profondamente scommettere con convinzione.
Le regole
Non si può tuttavia dar la colpa solamente alla mancata applicazione delle regole che esistevano per evitare le situazioni che poi si sono verificate. Certamente occorreva che qualcuno facesse rispettare le regole esistenti, ma è proprio così inevitabile che in ogni antro che si crea tra le regole per poterle eludere qualcuno vi si infili in maniera così prepotente?
È quindi inutile cercare di affidare le proprie speranze a regole sempre più stringenti, se tanto lo scopo delle persone che operano sui mercati è quello di trovare il modo per aggirarle.
L’intervento dello Stato
Altrettanto inutile è sperare che il problema della “fiducia”, del riavvio del sistema, possa essere accollato allo Stato. Le misure che potrà adottare non saranno mai comunque in grado di risolvere quel vulnus culturale che ha provocato il danno. Anzi il rischio che si corre è di trovarsi in una situazione in cui il male non viene risolto alla radice e la “nuova pianta” potrà ammalarsi nuovamente in breve tempo.
Un altro serio rischio è quello di trovarsi a fare un salto indietro nel tempo (banche e aziende a partecipazione statale), come se la soluzione migliore quando ci si accorge di aver imboccato una brutta strada sia per forza quella di tornare indietro così da arrivare a poco prima del bivio.
La persona
La soluzione deve innanzitutto nascere e sviluppare da ogni singola persona. Ma cosa dovrebbe fare concretamente? Provare a recuperare il senso del lavoro, del sacrificio, della costruzione, abbandonando forse per un po’ l’idea del guadagno facile. Gli imprenditori e i banchieri hanno il compito più importante: a loro spetta recuperare il senso della fiducia, riportarlo dentro il mercato. Perché ad esempio non rinunciare a distribuire i dividendi in modo da reinvestire gli utili? Purtroppo la “logica” del mercato è molto strana e punisce chi prova a ragionare in questi termini: in tal senso si veda cosa è successo in borsa al titolo Intesa Sanpaolo dopo che il Presidente del consiglio di sorveglianza Enrico Salza ha dichiarato di preferire il taglio dei dividendi all’intervento dello Stato nella sua banca.
Certamente ricostruire la fiducia è un passo impegnativo che richiede un grosso lavoro su se stessi e un grosso recupero culturale da parte dell’intera società. Ma se iniziamo forse potremmo decidere anche di fare un passo avanti, seppur in mezzo alla fanghiglia, piuttosto che tornare indietro come se avessimo solamente perso del tempo a camminare.