L’obiettivo di questo contributo è quello di analizzare in modo critico il concetto di razionalità tipico della Teoria Economica (TE) . In quest’ottica è doveroso sottolineare immediatamente che l’oggetto del campo di studio della TE è il comportamento umano, che genera fatti economici. Per questo motivo, è fondamentale affrontare il problema della razionalità economica partendo da un approccio multidisciplinare, in cui concezioni tipiche degli economisti si intrecciano con quelle degli studiosi di discipline umanistiche. Quanto presentato in questo lavoro è appunto, un primo esito di questo confronto.
Gli economisti, se preoccupati del significato culturale e sociale della loro disciplina (oltre che del rigore scientifico), non possono non tendere a delineare modelli, che rispondano ad una concezione dell’uomo che ne rispetti l’integrità, ossia la totalità dei fattori che lo costituiscono. Questa prospettiva porta a percepire, nella razionalità normalmente ipotizzata nella TE, un forte rischio di riduzionismo. Il concetto di homo oeconomicus, che largamente prevale, sembra ridurre e sfigurare l’immagine di uomo che trovano formulata nella cultura a cui fanno riferimento e che verificano nella loro esperienza.
Gli umanisti sottolineano appunto che il riferimento ad una concezione ricca dell’uomo e del suo destino ha rappresentato spesso l’istanza che ha permesso loro di problematizzare le concezioni dominanti. Ad esempio nelle scienze linguistiche, ad una visione riduttiva del linguaggio, interpretato come un generatore di messaggi dove al soggetto è riconosciuto il ruolo meccanico di terminale di un programma (l’uomo è parlato dalla lingua), è stata preferita una concezione del linguaggio come strumento – nel senso dell’Organon aristotelico – di cui l’essere umano si avvale per prendere posizione entro la sua comunità e per elaborare, interagendo con gli altri essei umani, il proprio intervento sulla realtà. In questo senso, un’adeguata comprensione della sfera economico-finanziaria nell’ambito delle dinamiche profonde dell’essere umano sembra essere dunque un requisito fondamentale per la TE.
Per comprendere i rischi di riduzionismo nell’attuale concezione della razionalità economica è interessante vedere la struttura concettuale della TE così come essa viene presentata agli studenti di Economia. Dato il loro enorme numero la TE diventa quasi un costume di pensiero. Essa si presenta come una scienza sociale, ossia una scienza che punta a spiegare dei fenomeni sociali, ed in questo è affine alla psicologia, alla sociologia, alle scienze politiche; essa si distingue, tuttavia, sia per l’oggetto che per il metodo che adotta. Oggetto della TE non è il comportamento economico degli esseri umani nella sua concretezza e articolazione, ma è un preciso punto di vista su questo comportamento, ossia la scelta in condizioni di scarsità. L’attività economica è tale in quanto soggetta a tempo e capacità di spesa che vincolano il soggetto economico nel suo impiego di risorse scarse: tipicamente lavoro, capitale fisico/umano, materie prime, che, proprio perché scarse, risultano insufficienti a produrre beni e servizi per soddisfare i bisogni delle persone. A fronte di una popolazione mondiale sempre più numerosa e di una quantità di risorse – specialmente di materie prime – limitate, diventa fondamentale, per poter soddisfare i bisogni per la sopravvivenza degli esseri umani, impiegare tali risorse ottenendone il massimo rendimento.
Da quanto appena detto emergono due nozioni cardine della Teoria Economica che meritano un approfondimento: bisogno e scarsità. La Teoria Economica sostiene che il soggetto economico è essenzialmente un portatore di bisogni e che, per soddisfare tali bisogni, ha a disposizione risorse (purtroppo) scarse.
Nel suo uso convenzionale, la parola bisogno ha una connotazione piuttosto fisiologica: bisogno di mangiare e bere, bisogno di dormire, bisogno di cure, e così via. È bisogno una necessità che l’individuo subisce e a cui, al massimo, può sforzarsi di resistere, riducendone il soddisfacimento. Quando si ha un bisogno, la libertà umana è quasi determinata – e quindi ridotta – verso un comportamento predisposto: nutrirsi, coricarsi, curarsi… In questa prospettiva, il comportamento economico prende la forma di una reazione, pressoché meccanica, a una situazione insoddisfacente e fastidiosa affinché questa cessi di esistere.
Se, da una parte, questa visione sembra poter, almeno parzialmente, spiegare quelle decisioni economico-finanziarie “necessarie”, come il pagamento di spese, bollette, multe, ecc.. essa si rivela incapace di dare ragione di fenomeni tipicamente “imprenditoriali”: fondare un’azienda, investire in un fondo pensione, ma anche esistenziali, come la scelta delle famiglie di risparmiare soldi nel presente per avere la possibilità, al tempo opportuno, di comprare la casa, di mandare i figli all’università.
Proviamo a paragonare la parola bisogno con un altro concetto, apparentemente molto simile, ma che, in realtà, nasconde una concezione di uomo profondamente diversa: desiderio. Certamente, possiamo parlare ancora di “desiderio di mangiare e bere”. Tuttavia, notiamo che quest’ultima espressione porta in sé un significato assai più complesso del “bisogno di nutrirsi”. Una persona a cui brontola lo stomaco perché non mangia da dieci ore sente giustamente il bisogno di mangiare; il desiderio di mangiare ha luogo, invece, non solo quando si ha fame, ma quando, ad esempio, si vuole gustare un cibo particolare, o il proprio piatto preferito, o accompagnare a una pietanza un buon bicchiere di vino, o, ancora di più, quando si vuole condividere una cena con gli amici, in una trattoria tipica, per un’occasione speciale.
Il desiderio, dunque, porta con sé un progetto, un ideale. Il desiderio è ciò che innesca l’azione umana, ovvero l’intervento libero, quindi responsabile e consapevole, di un agente sulla realtà presente per realizzare uno scopo, corrispondente a uno stato di cose nuovo, non ancora presente, tuttavia possibile. Un bisogno porta l’essere umano ad eliminarne le cause (ad esempio si beve per non aver più sete), mentre un desiderio spinge l’essere umano all’azione, cioè al movimento creativo che cambia la realtà, rendendola più corrispondente al soggetto stesso, a ciò che, in ultimo, realizza la sua felicità. Non è un caso che gli economisti aziendali, interessati ai processi concreti dell’economia piuttosto che alla teoria, accostino al bisogno proprio il desiderio (si veda, ad esempio, Airoldi, Brunetti, Coda, Corso di Economia Aziendale, Il Mulino, 2005).
Al fondo, tale concezione assume che la ricchezza, l’insieme dei beni economici, sia un dato, non modificabile. È il concetto di torta fissa da spartire (quella che i teorici della negoziazione chiamano appunto fixed pie), da cui si sviluppa un’idea ridotta di competizione: ciò che uno acquisisce è tolto ad altri. Questa idea è all’origine dell’invidia. Invidioso è colui che davanti alla ricchezza altrui è convinto che gli altri possiedono un certo bene “perché l’hanno tolto a lui”. La parola competizione deriva dal latino cum-petere, cioè puntare, insieme a un altro, a una cosa per possederla.
Ci sono in realtà due modi con cui si può interpretare la competizione, ovvero, usando la metafora sportiva, la partita e la gara. Nella prima (si pensi a una partita di calcio, di tennis, di pallacanestro…), effettivamente, se una squadra vince, l’altra perde. Si tratta di un gioco a somma zero (vale qui l’idea di torta fissa) a cui possiamo applicare il famoso detto “mors tua, vita mea”. Diverso il discorso per la gara (una corsa di automobilismo, una gara di ciclismo, di atletica leggera, di nuoto…), soprattutto per quella a cronometro. In questo secondo tipo di competizione ogni concorrente deve far del suo meglio per vincere, per arrivare primo, ma non necessariamente un buon risultato ottenuto dai rivali coincide con una perdita. Anzi, è possibile ottenere una situazione finale di reciproca soddisfazione (rappresentata simbolicamente nello sport dalla metafora del podio). La partita ha a che fare con l’eliminazione dell’avversario, la gara con l’emulazione.
Purtroppo, nella Teoria Economica l’idea di competizione è confinata a quella della partita: quello che un’impresa vince, è perso dalle altre. L’obiettivo dell’imprenditore sembrerebbe coincidere con la massimizzazione del profitto con implicita l’ipotesi che si desidera essere monopolisti. In realtà, molti imprenditori dimostrano comportamenti di natura diversa, che si lasciano spiegare in modo più pertinente da un‘idea di competizione come emulazione .
Queste considerazioni, tipiche della Teoria Economica, hanno diffuso nel corso del Novecento una certa concezione antropologica che pretende di sostenere che ciò che muove l’azione umana non è il desiderio come descritto sopra, bensì il risentimento verso il potere, ossia verso chi occupa una fetta invidiata di una torta, cioè verso chi possiede ricchezza e ne impedisce una più equa distribuzione.
Ancora una volta, è l’idea di ricchezza come un dato non modificabile a indurre una posizione di questo tipo. La ricchezza, al contrario, non è la precondizione, ma il risultato frutto dell’operare umano. Il bene – anche quello economico – è sempre esito dell’operosità dell’uomo. Ancora una volta l’etimologia ci viene in aiuto. Opera ha a che fare con opes, che significa risorsa; operare vuol dire, quindi, creare risorse. Tornando al concetto di desiderio, le risorse sono create come ponte per il compimento dei desideri dell’uomo. Emerge un’idea positiva e non risentita di ricchezza, per cui essa è continuamente in evoluzione, per effetto dell’opera dell’uomo messa in moto dai suoi desideri.
Queste considerazioni ci ricordano la riflessione di Aristotele, il quale distingueva tra beni incondizionati – la virtù e la giustizia – ritenuti assoluti, cioè sempre positivi in quanto fini; e beni strumentali, la cui bontà si misura in funzione dei beni assoluti, che essi permettono di realizzare. I beni strumentali sono la salute, la forza fisica, la ricchezza, la capacità organizzativa (oggi diremmo il management) e, infine, la capacità di creare consenso. Il Filosofo valorizzava l’idea della ricchezza come un bene. In poche parole, la ricchezza può certamente essere utilizzata male; tuttavia è indispensabile per fare il bene.
Una critica che viene avanzata, in particolare dagli aziendalisti, alla Teoria Economica riguarda la sua astrattezza, ovvero la sua insistenza a circoscrivere la realtà entro un modello, che non rappresenterebbe adeguatamente la realtà. Per descrivere l’approccio modello-centrico della Teoria Economica, si usa spesso raccontare la seguente barzelletta:
Tre naufraghi – un economista, un ingegnere e un fisico – si trovano su un’isola deserta con una lattina di fagioli, ma senza apriscatole. Si chiedono in che modo potrebbero aprirla. Ingegnere: colpiamo la lattina con un sasso. Fisico: accendiamo un fuoco per scaldare la lattina per aumentare la pressione esterna e farla esplodere. Economista: ipotizziamo di avere un apriscatole…
Insomma, il metodo della Teoria Economica sarebbe pertinente soltanto per un mondo simulato e risulterebbe inutile per spiegare i fenomeni concreti del mondo reale. In effetti, il metodo utilizzato dalla Teoria Economica è la formulazione di un modello, ossia una rappresentazione semplificata della realtà. I modelli possiedono quindi necessariamente un certo grado di astrazione, in quanto utilizzano, per esaminare un certo fenomeno ed identificare delle leggi generali che lo governano, delle ipotesi semplificatrici. Tutti i modelli della Teoria Economica (anche quello del precedente esempio) sono fondati su un’ipotesi di razionalità: le persone vengono genericamente rappresentate come “individui”, che si assume agiscano in modo razionale. La razionalità della Teoria Economica
È peraltro “meccanica”: l’individuo ha obiettivi predefiniti dalla teoria (ad esempio il suo benessere) ed è determinato nel tentativo di raggiungerli. Questo significa che l’obiettivo dell’individuo è il benessere individuale, allora la sua razionalità consiste esclusivamente nel compiere quelle scelte che lo massimizzano. Se il fine esclusivo è il profitto dell’impresa, la razionalità consiste meccanicamente nell’adottare quelle scelte che lo massimizzano.
Una Teoria Economica, puramente razionale e astratta, che si limiti a disegnare un modello e persino pretenda che la realtà si adatti a tale modello, non solo risulterà riduttiva e inefficace ma soprattutto pericolosa. Lo nota cinicamente Stephen Ross, professore di Economia Finanziaria al MIT, quando, analizzando una serie di fallimenti e scandali finanziari, conclude che «una cieca adesione a una particolare teoria o strategia (un modello, ndr.) è una caratteristica centrale di tutte le batoste finanziarie» proprio perché «purtroppo accadono eventi negativi che non erano stati previsti dalla teoria» (Ross, Forensic Finance. Enron ed altri, Rivista di Politica Economica, nov-dic. 2002.)
Tornando al tema del riduzionismo nella Teoria Economica, va precisato che esso non risiede tanto nell’importanza data alla dimensione razionale quanto nella concezione di ragione, intesa semplicemente come un insieme di procedimenti logici volti a garantire la coerenza. Una visione di questo tipo è parziale e può essere pericolosa. Parziale perché molto spesso la ragione è sfidata da una realtà complessa e non immediatamente evidente, per cui un approccio fondato su modelli si rileva insufficiente a risolvere le problematiche complesse dell’esistenza umana. Vi sono, cioè, decisioni e scelte che gli individui non possono prendere solo sulla base di concetti magari legittimi ma costruiti prescindendo dalle esperienze reali: sposarsi, iscriversi a una facoltà, avere un figlio, cambiare abitazione, creare un’impresa, assumere/licenziare un dipendente, reinvestire/distribuire gli utili, ecc…
L’approccio dell’homo oeconomicus non ha strumenti sufficienti per trattare simili (fondamentali) aspetti della vita umana ed economica e corre il rischio di dover ammettere che questo tipo di decisioni non riguardano direttamente la ragione, ma chiamano in causa sentimenti, sensazioni, percezioni o, magari, costrizioni e dipendenze. La visione riduzionista della ragione è, dunque, persino pericolosa, poiché separa il cuore umano, con i suoi desideri, dalla capacità umana di sostenere criticamente, di dare le ragioni, in una parola di argomentare, le proprio scelte.
La razionalità economica rischia di mettere in gioco la ragione solo nella forma della coerenza. In questa prospettiva, un modello coerente, per quanto astratto e riduttivo rispetto alla realtà, può auto-giustificarsi. Un oggetto così complesso, pluristratificato e finanche spesso ambiguo come lo è il comportamento umano, che implica la libertà dei soggetti e il loro riferimento a sistemi di valori enormemente diversificati e a esperienze individuali irriducibilmente differenziate, richiede da sempre un esercizio della ragione più complesso e flessibile, più capace di cambiarsi per aderire al nuovo, all’imprevisto, più capace di riformularsi affinando la propria strumentazione concettuale, più capace di percepire la rilevanza dei fattori in gioco. È richiesto non il semplice esercizio della razionalità ma il dispiegarsi della ragionevolezza, che implica la razionalità ma la eccede .
Quanto espresso in questo contributo non ha l’obiettivo di sminuire la rilevanza degli studi condotti, in più di un secolo di storia, nell’abito della Teoria Economica. È infatti innegabile che le discipline economiche hanno prodotto numerosi benefici per la società, permettendo un uso più razionale delle risorse, introducendo metodologie per valutare la produttività degli impieghi, l’efficacia delle politiche di intervento dei governi e delle banche centrali, sottolineando l’importanza di fenomeni rilevanti e pervasivi legati ai comportamenti adottati nei vari mercati. Benefici ottenuti coniugando un vivace confronto intellettuale tra le varie scuole di pensiero a un crescente rigore metodologico.
Le riflessioni sinteticamente presentate in questo articolo rappresentano piuttosto un invito a riconsiderare il concetto, astratto ed idealizzato, di homo oeconomicus. Secondo la Teoria Economica neoclassica, si tratterebbe di un individuo puramente “razionale”, perfettamente informato e, soprattutto, egoista, interessato cioè a perseguire il suo esclusivo interesse. Proprio la nozione di interesse (oltre che di ragione) è oggetto qui di un grave riduzionismo. In latino, il termine interesse si compone di tre parole inter, res, esse, mettendo così a fuoco il rapporto tra “me” e la realtà. O meglio: chiede di vedere in rapporto a qualsiasi evento o ipotesi di evento quanto abbia a che fare con la “mia cosa”, in che misura per me cambi. In altre parole, interessa ciò che interviene nella mia realtà e la modifica.
Giustamente la nozione di interesse viene legata alla razionalità, poiché agisce razionalmente – nel proprio interesse – colui che realizza ciò che modifica positivamente la sua realtà. La riduzione del concetto di razionalità economica sta, da questo punto di vista, nella lettura meschina della mia realtà, dei confini di “ciò che è mio”, che esclude la possibilità di realizzare indirettamente la propria felicità attraverso l’impegno entro un’interazione in cui si realizza anche la felicità dell’altro.
(Da Atlantide: Gianmaria Martini, Eddo Rigotti, Rudi Palmieri)