Una volta Cesare Romiti mi raccontò che “ai suoi tempi” (sic!) per accordarsi bastava una stretta di mano e successivamente si firmavano contratti che mai avrebbero costituito un pretesto per rimangiarsi la parola data. Nei tempi più recenti, proseguiva, prima si fanno riunioni tra truppe di legali, poi si stendono le bozze dei contratti e alla fine del percorso le parti firmano montagne di carta che regolamentano tutto e il contrario di tutto. Romiti concludeva amaro che era molto ma molto meglio prima. Difatti la stretta di mano tra due imprenditori o due parti (che brutto: oggi diciamo invece abitualmente controparti) che si accordavano sottendeva la fiducia, non detta ma implicitamente affermata, che presupponeva la “transazione”.
Se qualcuno si prendesse la briga di leggere i contratti che regolano le attività commerciali, i mutui, i prospetti informativi di emissioni di bond, di azioni, o di altri strumenti finanziari si renderebbe conto che la prassi delle controparti, ineccepibile nella sua formale stesura, è la totale assenza di fiducia. Il paradosso che regola il mondo degli affari oggi, come anche, purtroppo, la vita quotidiana, è la totale assenza di fiducia. Cioè: ciò che dovrebbe essere la ragione scatenante “l’affare” tra due o più soggetti è invece totalmente assente, anzi, è spunto per prevenire ogni possibile rischio.
Fiducia e rischio vanno di pari passo; senza l’una, l’altro non può essere assunto e senza il secondo la prima non può essere esercitata.
Ritengo che l’assenza di fiducia (“fidarsi è bene non fidarsi è meglio”, disse don Giussani, è una delle affermazioni più anti-umane che ci siano) implichi l’assenza di “rischio” e che sia quindi causa e non effetto della crisi finanziaria ed economica nella quale versiamo oggi. Non è stata la crisi finanziaria a produrre l’assenza di fiducia, è vero invece il contrario: l’assenza di fiducia che progressivamente è andata infiltrandosi nella mentalità comune ha fatto sì che venisse meno l’esercizio del rischio, con la conseguenza di privilegiare la rendita al lavoro, la resa finanziaria alla resa della produzione.
Ma il rischio non è quello del tavolo verde: l’assunzione del rischio implica la coscienza dello scopo per cui io rischio: un’idea imprenditoriale, maggior benessere per il futuro, un ideale. Il distacco tra coscienza dello scopo e assunzione del rischio ha portato, per esempio, anche istituzioni finanziarie a prestare soldi a chi era chiaro che non avrebbe potuto restituirli non già per permettergli di acquistare ad esempio una casa, ma al solo scopo di rivendere il credito ed il relativo “rischio” attraverso i cdo (collateralised debt obligation) tante volte, per potervi speculare ad ogni passaggio.
Pertanto, in questa fase nebulosa, conviene chiarire cause ed effetti per tentare cure che rimuovano il vero male. Tali cure non possono ridursi a nuove regole che assicurino trasparenza (pensiamo a quante regole abbiamo già applicate senza che siano servite sostanzialmente a nulla); devono essere principalmente prese di posizione come quelle dei governi che forniscono liquidità alle banche e rimuovono i manager che hanno sbagliato, dando così un segnale preciso: vigiliamo su una corretta assunzione di rischio. Come è stato per Porsche, che rifiutandosi di fornire trimestrali perché ritenute una non corretta rappresentazione dello stato di salute di una azienda, ha accettato anche di venire delistata dalla borsa (DAX di Francoforte); come quella coraggiosa del governo americano che salva banche commerciali per difendere risparmiatori, mutuati e correntisti ma non banche d’affari che hanno speculato su di loro (anche se poi il prezzo per il salvataggio, nel breve, è maggiore).
Personalmente concordo con il Financial Times quando ha scritto che “la libertà dei mercati non è una ‘religione fondamentalista’. È un meccanismo, non una ideologia, e ciò è stato provato via via nel corso degli ultimi duecento anni. Ciò che manca è una migliore regolamentazione del mercato senza che i legislatori si sostituiscano ad esso perché, ad oggi, nulla di meglio è stato ancora inventato”.
Questo periodo storico è propizio perché il legislatore regolamenti il mercato cercando esempi virtuosi che esistono e da essi deduca modelli per il futuro. E ciò può essere fatto soltanto da uno Stato, sussidiario, che abbia il coraggio – come è stato fatto nella riunione di Parigi – di assumersi le proprie responsabilità ma ponendo condizioni, e – aggiungo io – valorizzando coloro che un approccio di questo tipo già lo attuano. In questo modo la fiducia tornerà non perché i mercati si normalizzeranno, ma il mercato sarà più mercato perché tornerà la fiducia. E perché ciò accada occorre guardare a chi si fida e rischia, anche se non è stato necessariamente “alle regole del gioco” ma ha concluso un affare magari stringendosi la mano. E di questi esempi ce ne sono migliaia.