Attenti a non buttar via il bambino,cioè l’innovazione finanziaria, con l’acqua sporca. Sul lungo termine, può essere questa la più grave conseguenza della crisi che sta scuotendo dalle fondamenta l’edificio dell’economia globale. Si è a lungo dibattuto e ancor più si dibatterà sulla “rivincita” degli Stati sul mercato; si è a lungo discusso, e ancor più si discuterà, sulla necessità di nuove regole, a partire da un consistente aumento dei requisiti patrimoniali richiesti alle banche e alla disciplina di quelle cartolarizzazioni e di quei derivati che hanno alimentato la “finanza ombra”, consentendo di aggirare, impacchettando i prestiti in appositi veicoli societari, i requisiti di capitale richiesti dalle autorità di vigilanza.



Non si è parlato granché, se non in termini generici, del modo in cui è stata usata l’innovazione finanziaria. E di come, al contrario, potrebbe essere usata al servizio dell’interesse collettivo. In termini molto semplici, l’innovazione finanziaria consiste nel passaggio dall’attività bancaria tradizionale (raccolgo depositi e faccio prestiti) alla gestione, trasformazione e commercializzazione dei rischi, ovvero alla ricerca di soggetti disponibili a sopportare i rischi dei prestiti che le banche valutano e promuovono, salvo poi ricollocarli sul mercato. Di questa attività, ai tempi attuali, si dice tutto il peggio possibile. Ma la colpa sta nello strumento? E la soluzione consiste nel bandire gli strumenti di gestione del rischio, quasi che presentassero i rischi dell’energia nucleare? Anzi, peggio,visto la maggior accettazione sociale dell’energia che deriva dall’atomo negli ultimi tempi.



In realtà, il panorama è desolante: nel corso degli ultimi 10/15 anni il patrimonio immobiliare degli americani è stato gestito in maniera scriteriata, senza alcun rispetto per l’effettivo interesse del cliente, sia del nullatenente spinto a sottoscrivere un subprime da chi comunque incassava una commissione; sia del cittadino che si è indebitato sulla plusvalenza teorica dell’immobile, il cui mercato veniva intanto drogato da scariche di liquidità abbondante, trasmettendo un messaggio solo: comprate, perché il mattone non scende mai di valore. Un circolo perverso che, a poco a poco, ha coinvolto tutti gli attori: società di rating, banche centrali, Bri o Banca Mondiale: tutti consapevoli che la situazione andava degenerando, nessuno (per i motivi più diversi) disposto a fermare il giocattolo. Da questo punto di vista, la frana della reputazione di Alan Greenspan è sintomatica.



Intanto, in Italia, le banche incoraggiavano la fuga dai fondi di investimento, trasparenti, favorendo l’approdo a strumenti illiquidi ed opachi, vedi unit o linked, collocate nella presunzione della sicurezza. Gli esempi potrebbero proseguire a lungo. La sostanza è che l’innovazione, con la sua non indifferente letteratura e tecnologia che ha reso possibile la gestione dei rischi sistemici, è andata solo a vantaggio della speculazione. Nulla o quasi è stato fatto a vantaggio del consumatore finale: è il caso dei risparmiatori ma anche di quelle migliaia di pmi cui le banche hanno rifilato contratti di copertura che, alla fine, si sono rivelati delle trappole letali in caso di inversione del ciclo.

È il caso di chiudere con l’innovazione? Oppure, così facendo, non ci si condanna a semplici azioni tappa buco, in cui si finisce con il salvare i meno meritevoli? Dalla crisi, ammonisce Robert Shiller, che invano mise in guardia prima dalla Bolla Internet, poi da quella immobiliare (ma si tratta dello stesso tsunami alimentato dagli squilibri macro dell’economia Usa), non si esce con “meno finanza”, ma con “più finanza”. Ci vuole più cultura finanziaria o, meglio ancora, più rispetto per la cultura finanziaria. Magari creando strutture pubbliche per la gestione del rischio: un patronato pubblico per la valutazione, obbligatoria, dei contratti relativi ai mutui, alle carte di credito o al prestito auto sottoposti da banche e compagnie di assicurazione, avrebbe consentito di evitare la bolla dei subprime. Senza minacce di statalismo. In una società come la nostra, dove comunque si riduce l’ambito dell’assistenza pubblica (vedi sanità o previdenza) è necessario fornire ai cittadini strumenti di comprensione. Ma, così come nessuno chiede di superare un esame universitario per combattere il cancro, ma si dà spazio alla medicina preventiva, così non pretendiamo che il risparmiatore si crei la sua cultura (anche se saper fare il calcolo di interesse composto è sempre utile…). Ma che sappia a chi far ricorso per assumere le scelte corrette. E così, risultato non da poco, si potrà esaltare il ruolo della sussidiarietà (in fase di assistenza al pubblico) piuttosto che comprimerlo, come avverrà dato lo sforzo dello Stato a sostegno di banche che scricchiolano.