Siamo abituati a titoli vistosi sulle prime pagine dei giornali. La vicenda Alitalia ha avuto una visibilità eccezionale, forse più di altre recenti crisi aziendali altrettanto se non più rilevanti. Una ragione d’interesse è l’alterno spostarsi degli equilibri tra ruolo del soggetto pubblico e pertinenze delle iniziative imprenditoriali private; se il sindacato interviene, non si capisce mai bene che parte giochi.



Più che in altri Paesi, noi siamo sensibili ai rapporti tra Stato e mercato. È nei nostri cromosomi la ricerca di costanti riferimenti nel soggetto pubblico: per buona sorte, come negli anni Cinquanta in regime di economia mista; con gradazioni problematiche, quando Stato e politica hanno dilatato i loro territori oltre misura, come tra le due guerre e in anni più recenti.



In generale il nostro atteggiamento mentale e i comportamenti sono poco propensi a valorizzare il ruolo degli attori sociali e la loro autonoma capacità normativa. Esemplare il caso dei rapporti tra lavoratori e datori di lavoro sul terreno delle relazioni industriali. Da mesi è in corso una trattativa che vive di discontinuità, rallentamenti, fratture poi ricomposte con mediazioni che possono modificare l’oggetto del contendere: la riforma del sistema contrattuale cui sono interessati i lavoratori dipendenti, quota non da poco anche in un Paese con molto lavoro autonomo.

In sé la questione è semplice: a fronte di una lunga tradizione di contrattazione centralizzata, sembra ora possibile introdurre un duplice (forse un triplice) livello contrattuale. Accanto alle tutele generaliste proprie dei contratti nazionali di categoria, vedremmo operare la contrattazione aziendale, capace di avvicinarsi il più possibile alla singola unità produttiva. Il terzo livello sarebbe quello territoriale, provinciale o regionale, utile lì dove la piccola dimensione delle imprese e gli atteggiamenti degli imprenditori non consentono di sottoscrivere accordi aziendali.



Nulla di che, in apparenza: è quel che accade da un quindicennio nel settore agro-alimentare, poi molte grandi imprese applicano contratti aziendali. Ma la riforma, introducendo una regola generale, toccherebbe uno snodo cruciale: la produttività del lavoro e, di conseguenza, la possibilità di incidere sui livelli salariali in base non a valutazioni nominalistiche ma misurate lì dove si produce la ricchezza reale. Un modo concreto per migliorare le condizioni dei lavoratori.

Il tema è antico: contrattazione aziendale e rapporto produttività/salari sono state poste a tema, per conto della Cisl, da Mario Romani a metà Novecento. La storia ci spiega perché poco è cambiato da allora. Le associazioni degli imprenditori storicamente hanno sempre ricusato la possibilità di ammettere l’azione sindacale nelle loro aziende e hanno considerato la produttività materia di loro esclusiva pertinenza. Tanto più che negli anni Settanta il sindacato unitario ha visto nelle vertenze aziendali la panacea dei mali del capitalismo e un modo per portare la lotta di classe dentro le imprese. Coerentemente con una logica classista, si puntava sugli automatismi a tutela dei salari.

Ricordate la scala mobile? Tutelava i salari nominali ma, causando inflazione, erodeva i salari reali; inoltre negava, in nome di tutele omogenee per tutti, le differenze di professionalità tra i lavoratori e le molteplici esigenze delle imprese.

Oggi è in gioco la capacità degli attori, imprese e lavoratori, nel rovesciare antiche resistenze ideologiche e insuperabili barriere che impediscono di stabilire punti di interesse comune su cui operare con reciproco vantaggio. Innanzitutto sta a loro affermare la propria autonomia dalla logica politica per cui è meglio, sempre meglio, misurarsi su vertenze nazionali in forza di una rappresentanza e di tutele generiche, accada quel che accada poi sui posti di lavoro.

Un altro rischio si profila: la soluzione tecnica. Si parla di incrementi retributivi legati a parametri aziendali (secondo la proposta Boeri-Garibaldi al margine operativo lordo, il Mol). Benedette formule: già F. W. Taylor, da buon ingegnere, aveva ipotizzato di ricondurre la complessità dell’impresa a una sequenza numerica. Poi si è confrontato con le realtà umane e sociali che danno vita alle aziende e che stritolano ogni illusione tecnocratica.

Gli automatismi ridurrebbero il ruolo della contrattazione dove c’è, e dove non c’è invece di avere un effetto di riallineamento (portare il contratto dove manca) toglierebbero senso alla contrattazione e alla stessa azione sindacale. Di più: il Mol chi lo elabora? Affidiamo tutto ai produttori di bilanci? Oppure puntiamo sulla salvifica capacità degli uomini nell’affrontare e risolvere di volta in volta i problemi anche passando da momenti di conflitto aperto? Meglio essere liberi potendo difendersi collettivamente. Certo, su questi temi emergono differenze che talvolta ci riesce difficile capire: ad esempio tra le grandi organizzazioni sindacali. Ma perché non prendere atto che ci sono diversità nelle concezioni che le animano, nei loro uomini e nella loro storia? Non è questione di apparati che si autoproteggono, è che le culture sono differenti così come fortunatamente non tutti si appiattiscono sugli incanti della politica o divagano verso tecnicismi illusori.

La riforma del modello contrattuale è l’occasione per verificare la reale autonomia dell’azione sociale e la sua attitudine a incidere, partendo dal basso, sulle condizioni dei singoli, sull’andamento delle imprese e sulla salute economica del Paese.

Non che la defatigante resistenza della Cgil non abbia sino ad ora prodotto alterazioni rispetto a quel che da qualche tempo sta accadendo: Confindustria, sotto la pressione degli andamenti dell’economia reale, aveva accettato di sedersi al tavolo della trattativa. Ora ha messo sul tappeto un documento di compromesso, dato che salvaguarda buona parte della forza del contratto nazionale sugli automatismi a tutela del salario.

Pur con tutti i limiti, la riforma della contrattazione (se non viene ancor più snaturata) segnerebbe una data storica, fatte salve le difficoltà che comunque insorgeranno sui tavoli aziendali e locali con gli imprenditori.

Come ogni fatto che segna un prima e un poi, comporta uno sforzo decisivo nell’affermare un campo di competenze proprio dell’azione privato-collettiva in cui interagiscono soggetti direttamente interessati al buon andamento dell’economia, alla competitività delle imprese e alla tutela delle condizioni di vita dei lavoratori dipendenti e delle loro famiglie.

Un’occasione che il sindacato e le imprese non possono perdere perché l’alternativa è solo tornare indietro nel tempo, né in questi casi si può trovare soluzioni gestite altro che dagli attori in causa. Un conto è procedere sulla strada già percorsa dalle economie più forti, un conto è ritagliarci l’ennesima originalità nazionale volta al passato.

In ultima istanza, siamo in grado di dare un segnale forte nella direzione che porta a confidare sulle capacità degli attori sociali e sulle risorse dell’economia reale in autonomia dall’azione politica?