Nemmeno la valigiona piena di dollari che Hank Paulson ha preparato (in tutto 700 miliardi pari al 5% del prodotto lordo americano) è riuscita a riportare fiducia a Wall Street e in Main Street. Figuriamoci le parole dei quattro grandi (Germania, Regno Unito, Francia e Italia). Sono durate lo spazio di un mattino segnato, nelle borse europee, da un lunedì tra i più neri. Il bricolage nazionale non funziona, come ha dimostrato il fiasco tedesco nel salvataggio di Hypo Real Estate. E i governi saranno chiamati a scelte molto più drastiche.
È vero che la Ue non è uno stato federale, non ha un unico bilancio, né una sola politica fiscale. Quindi è più difficile creare un fondo alla Paulson (la proposta Sarkozy appoggiata da Berlusconi ammonta a 300 miliardi di euro pari al 3% del pil europeo). Il problema di chi e quanto paga resta un rompicapo politico prima ancora che economico, pressoché irrisolvibile nel Vecchio Continente. Tuttavia, l’approccio caso per caso è un errore. Dietro questa ostinazione tardo-nazionale non c’è soltanto l’eterna diatriba tra federalisti e confederali, ma un conflitto di interessi molto forte. Gli inglesi non vogliono che la Bce possa in qualsiasi modo mettere il naso nei santuari della Old Lady, alias Banca d’Inghilterra. E soprattutto intendono salvaguardare l’autonomia della City, nonostante i guai che ha combinato. I tedeschi difendono quell’intreccio tra banche, assicurazioni, industrie che è l’architrave del Modell Deutschland. Il Lussemburgo vuol tenersi il suo “paradiso”. E così via. Ciascun per sé, perché ciascuno coltiva il proprio orticello.
Il vertice parigino, inoltre, ha mancato di rispondere a tre questioni vitali: Maastricht, il ruolo della Bce nella vigilanza bancaria e la politica monetaria. Certo, tutti auspicano un’applicazione più flessibile, ma il patto di stabilità va rivisto da capo, perché la storia è cambiata. Allora (sono passati 15 anni) il pericolo veniva dalle valute, oggi dalla finanza e dal credito. Allora bisognava sradicare l’inflazione, oggi bisogna mettere radici robuste allo sviluppo. Ciò ci porta al dogma della banca centrale: l’unico suo compito non può più essere mantenere i prezzi sotto il 2%. Deve anche favorire il rilancio economico, controllare il credito e garantire una crescita che coincida con il potenziale dei paesi europei (si aggira al 3%, il doppio di quel che in media è stato realizzato negli anni di vacche grasse).
È in gioco l’Europa così come l’abbiamo conosciuta. Dunque, si può pensare l’impensabile, anche il collasso dell’euro. «E se i suoi critici avessero avuto ragione?» – ha scritto Pierre-Antoine Delhommas su Le Monde. Se fior di premi Nobel come Milton Friedman o il francese Maurice Allais avessero capito che una moneta unica non poteva sopravvivere senza un vero mercato unico e una struttura politica adeguata? Fino a ieri erano voci nel deserto, ma oggi che la Ue non ha il coraggio di superare i vetusti campanili, nemmeno di fronte alla più grave crisi della sua storia, il loro pessimismo rischia di trasformarsi in realismo. Un progetto coordinato di rilancio dell’economia reale, insieme a un radicale risanamento della finanza malata, può evitare che la sfiducia si trasformi in panico. Ma ci vuol altro che un week end all’Eliseo.