E adesso finalmente potremo dire addio ai bilanci sociali delle banche. Addio a quegli inutili quanto patinati manuali di perbenismo aziendale e bon ton gestionale. A quei pesanti faldoni di carta politicamente corretta, racchiusa in copertine a basso impatto ambientale e probabilmente recapitati sulle scrivanie giuste da divinità alate in divisa new age.



Addio a quei contenitori di asettiche e indiscutibili linee guida dettate da un Olimpo di consiglieri illuminati e tradotti in opere e azioni da persone di buona volontà, incaricati di diffondere il verbo della sostenibilità tra piani, semipiani, openspace, sale mense interne e parcheggi  a pettine in centro per scooteroni.



Benvenuti nel meraviglioso mondo dei bilanci sociali degli Istituti di Credito. Un universo nato nemmeno troppo tempo fa e grazie ai mutui subprime (ma anche ai bond Parmalat, Cirio, Lehman, alle polizze Index Linked e Unit Linked, ai mutui non rinegoziabili a tasso variabile e a tutte le altre piccole e grandi truffe che la banca ha piano piano rifilato un po’ a tutti) destinato a implodere in men che non si dica. E, si spera, a tramontare definitivamente per manifesta inutilità se non palese travisamento della realtà.

Perché diciamocelo chiaramente: i bilanci sociali – delle banche poi! – non ci hanno mai convinto del tutto. Né ci hanno mai persuaso completamente le troppo anglosassoni ragioni della tutela di quella un po’ oscura categoria di persone chiamate stakeholders o di quella un po’ più chiara, ma anche molto più avida, dei cosiddetti shareholders. E chi saranno mai i “portatori di interessi” di una banca, se non i suoi bravi e onesti correntisti, i loro familiari con i nuclei dei dipendenti? E cosa vorranno poi quei pretenziosi “portatori di azioni”, a parole fan della partecipazione attiva ai diritti e doveri del capitalismo democratico, nei fatti seriorissimi adepti della religione della cedola massima garantita?



E così ci  è voluta una crisi peggio del ’29 per far – si spera per sempre – franare sotto i colpi dell’intelligenza e del buon senso, quel gigantesco e ipocrita castello di carta chiamato vuoi rendiconto sociale, vuoi bilancio ambientale, vuoi tutte e due le cose insieme se non di più.

Cioè della serie: “Ma che ci importa quanto toner in meno consumi in banca se poi a mia zia gli rifili la pattumiera col bollino Lehman?” Cioè, cara banca, che cosa me ne faccio dei grafici su quanta acqua naturale hanno sorseggiato gratis i tuoi impiegati tra una fatica e l’altra, su quante piante non hanno tagliato in Norvegia per riscaldare l’ufficio del presidente quando è in aereo, o su quanti pozzi in Africa hai costruito con quella somma del bilancio che corrisponde al minuto e mezzo circa di lavoro del Ceo, se poi mi rischi di fallire e non sai nemmeno bene perché?

Dalle ceneri della crisi rinascerà un nuovo ordine economico. Una nuova disciplina finanziaria. Un nuovo modello di banca. Chissà, magari più capace di dare, ottenere e costruire fiducia, che abile a celare la polvere sotto un bel tappeto di cellulosa riciclata o ad abbronzare i propri manager nello specchio di una grande cella fotovoltaica.

(Tradotto per i seriosi addetti ai lavori: il miglior bilancio sociale di una banca è quello civilistico. Grazie)