La crisi economico finanziaria ha sollevato molti punti di domanda sull’operato dei banchieri e sul grado di responsabilità della finanza sofisticata. Il direttore generale di Intesa San Paolo fa un bilancio della crisi, dalle ultime azioni dei governi per contenere gli effetti della recessione alle cause profonde della bolla finanziaria: perché il mercato più evoluto del mondo non ha funzionato e non ha segnalato l’eccesso e i rischi di gestione del credito? Occorre rispondere, perché ne va della stessa razionalità del mercato. Ora però «l’effetto domino finanziario è scongiurato e il problema è la trasmissione della crisi finanziaria all’economia reale. Occorre aver pazienza ed essere accorti». I governi? Bene le manovre di contenimento, ma come produrre fiducia è davvero un’incognita.
Dottor Modiano, a che punto è la crisi? L’ultimo Ecofin non ha prodotto soluzioni unitarie, ma indipendenti anche se condivise nel merito, per contenere le conseguenze della crisi e ricostruire la fiducia. Che ne pensa?
I governi dei principali paesi hanno già fatto moltissimo per ristabilire la fiducia: hanno giocato in difesa, e non è poco. Salvare la fiducia in questo caso vuol dire evitare una situazione di panico generalizzato che avrebbe introdotto effetti catastrofici. I governi hanno agito o salvando le banche direttamente, o mettendo a disposizione delle banche reti di protezione nel caso ci fossero difficoltà di liquidità o di solvibilità. Questo è stato fatto ed è la cosa più importante. Al titolo: si eviti il panico.
Ma l’aspetto più complicato è, in positivo, come produrre fiducia in un mondo incerto.
Questa è una cosa complessa. Evitare il panico è stato fatto, ma produrre fiducia lo si può fare se c’è un ancoraggio alla realtà. Ma la realtà in grado di sostenere la fiducia ha molto a che fare con le condizioni diffuse nei vari paesi sul futuro dell’economia reale. E di conseguenza con l’intervento delle politiche economiche sul ciclo, sottoposte a vincoli nei diversi paesi. Purtroppo le tendenze obiettive in atto puntano tutte ad un aumento delle difficoltà delle economie reali. L’efficacia degli interventi di politica economica si verifica sempre a posteriori, mai a priori e quindi gli annunci di politica economica non rispondono alla necessità di ristabilire prontamente la fiducia.
Prendiamo l’Europa. La Bce ha tagliato il costo del denaro, riducendo il tasso di riferimento al 3,25%. Dopo l’ultimo Ecofin i paesi europei hanno intrapreso la strada di una soluzione coordinata, ma non unitaria, per far fronte alla crisi che ha investito il credito.
L’esercizio è complesso ed è giusto provarci. Il segnale dato dai governi è che non lasciano andare l’economia ma si fanno carico di terapie di correzione del ciclo negativo e questo va bene senz’altro. Ma che cosa “in realtà” si debba fare non è chiaro. È evidente che oggi il pericolo principale è un effetto cumulativo di riduzione della ricchezza reale, delle persone e finanziaria, seguita da un peggioramento delle aspettative che può produrre un effetto sui consumi molto grave. Il problema, in ogni caso, è quello del sostegno della capacità di spesa.
Fin dove potrà spingersi l’Europa?
L’Europa ha dimostrato di esserci nella partita difensiva. Ma non c’è una politica fiscale comune e non c’è una politica economica comune. Quindi nessuno si stupisce che i governi abbiano preso atto delle difficoltà e annunciato provvedimenti per venirne a capo, ma nessuna entità europea può prendere impegni di politica economica per i singoli governi.
Quando è scoppiata la crisi si è incolpata la finanza sofisticata: è giusto secondo lei?
È una visione che pecca di eccessiva semplicità. Di fronte alle catastrofi temute o verificate si cercano i colpevoli e si tende naturalmente a semplificare per comprendere. In questo caso, spiegando che tutto è avvenuto per l’avidità dei finanzieri e per l’insipienza dei regulators. È la visione che spontaneamente proviene dall’opinione pubblica, e che molti mezzi di informazione hanno sostenuto e alimentato. Ma la genesi della crisi, io credo, non ha a che fare con l’avidità e neanche con l’insipienza.
Qual è allora la sua interpretazione?
La genesi è dovuta a un eccesso straordinario di liquidità creatosi dopo l’11 settembre e col fatto che negli Usa si tendeva a favorire l’indebitamento delle famiglie a scopo anticiclico o addirittura sociale. La somma di grande liquidità e basso rischio ha prodotto una riduzione dei tassi di interesse e un’abbondanza di credito in tutto il mondo che ha fatto del gran bene al pianeta. Però i bassi tassi di interesse hanno messo in condizione le banche di non guadagnare abbastanza per capitale impiegato e hanno generato nelle banche la tendenza a vendere i propri rischi di credito e a comprare rischi di credito altrui, attraverso strumenti derivati o altro, comunque credito trasformato in titoli. Questo ha prodotto, a parità di assorbimento di capitale delle banche, un’assunzione di rischi di credito enormemente superiore a quello che ci sarebbe stato in assenza della leva.
Più delicato è il tema delle “responsabilità” di malfunzionamento individuale o sistemico…
L’utilizzo degli strumenti di finanza sofisticata è stato un comportamento certamente razionale da parte di ogni singolo banchiere, e ognuno aveva il dovere di utilizzarlo perché era un modo legittimo, nell’era dei bassi tassi di interesse, per produrre reddito per le proprie banche a parità di capitale. L’effetto sistemico si è rivelato devastante quando si è capito che il mercato non dava i segnali giusti sui rischi di credito: il mercato, fino a quel momento, non aveva mai “segnalato” l’eccesso di credito. Lo ha fatto con una catastrofe.
Come e quando è accaduto?
Quando un americano di troppo ha deciso di non rimborsare il suo mutuo – o di rimborsare i prestiti meno di quanto previsto: e allora tutti i portafogli di credito hanno visto ridotto il loro valore, compromettendo il poco capitale delle banche che in essi avevano investito. Questo ha prodotto un effetto domino. Fin qui non c’è stata una cattiva volontà del bancario. Poi si può anche dire: “avete spinto i ritorni sul capitale di ogni singola banca troppo avanti perché avevate le stock options…” questo non spiega però il problema principale: perché, di fronte all’eccesso, il mercato non ha dato i segnali propri dell’eccesso?
Qual è la sua risposta?
Nessuno individualmente ha capito che si era di fronte a un eccesso. Perché non è emerso è il problema vero. Un mercato super efficiente come il mercato finanziario, se non produce prezzi che segnalano e danno la misura dell’entità delle tensioni in campo, presenti e future, è un mercato che non funziona. Ma questo significa negare in radice la teoria economica sulla quale abbiamo messo in piedi il mondo che conosciamo degli ultimi venti, forse trent’anni. Ed è un problema serio, quello sul quale più mi interrogo. Vuol dire che sul mercato che, nella storia, più si è avvicinato a quello della concorrenza perfetta, per disponibilità di informazioni, numero di operatori, dimensioni e strumenti i prezzi “non hanno funzionato”.
La sua riflessione tocca la natura stessa del mercato finanziario.
Prima di abbracciare una tesi pessimista, dicendo cioè che il mercato non produce razionalità ancorché i singoli operatori siano razionali, bisogna fare molta attenzione. Allora si scopre che il mercato dei derivati di credito non era un mercato efficiente e che non era tale da poter segnalare tensioni sui rischi; che i meccanismi contabili erano forse mal costruiti, cioè che il fatto di produrre bilanci con questa leva è stato favorito probabilmente da errori negli schemi di contabilizzazione; che si è sbagliato, negli Usa, a garantire i mutui… Si è creata una distorsione competitiva aggiuntiva contro il mercato, senza favorire lo sviluppo delle forze del mercato. Ci sono quindi elementi per dire che il mercato non è stato messo in condizione di funzionare, non che ha funzionato troppo.
Quali sono le terapie?
Se il mercato non funziona di per sé, ben venga lo Stato; se il mercato non è stato messo in condizione di funzionare, allora c’è stato un deficit di mercato. Le due risposte, come è evidente, portano su due versanti opposti. Si vede bene che la tesi della cattiva volontà dei bancari e dell’insipienza dei regulators è povera dal punto di vista interpretativo.
La comunicazione della crisi sui mezzi di informazione poteva essere fatta in altro modo?
La pubblica opinione non era informata dell’esistenza di un pericolo di catastrofe, perché il mercato non ha prodotto questa indicazione. Quando la crisi è esplosa, i giornali hanno interpretato la reazione spontanea dell’opinione pubblica di fronte ad una catastrofe, cioè come caccia al nemico. Comprendo che un titolo, i giornali, debbano farlo e spesso entro poche ore.
La crisi ha messo l’intero sistema bancario alla sbarra. La crisi ha fatto riscoprire le virtù nascoste – o taciute, a seconda dei punti di vista – del nostro sistema bancario.
L’Italia da questo punto di vista sta meglio di qualsiasi altro paese. Le banche italiane non hanno favorito il sovra indebitamento, né delle imprese né delle famiglie, e hanno ottenuto buoni risultati senza eccedere nell’assunzione di rischi, e quindi si sono presentate all’appello in una condizione migliore. Le nostre famiglie sono le meno indebitate di tutto il resto del mondo. L’aumento recente del debito delle famiglie che c’è stato fino al 2007 è stato sano e non fatto per sostenere i tenori di vita, ma piuttosto per ottimizzare il rapporto tra attivo e passivo, o migliorare il profilo intertemporale delle spese.
A suo avviso occorre superare Basilea 2 verso la costruzione di una Basilea 3 meno esasperatamente legata a rating o meccanismi tecnici per la concessione del credito alle Pmi?
La crisi è nata dal fatto che le banche hanno fatto troppo credito, in tutto il mondo, a causa di tassi troppo bassi, quindi se una riforma del sistema creditizio va fatta, è per fare prevenzione ma piuttosto in senso restrittivo. È significativo che con Basilea 2 in vigore non abbiamo avuto un difetto di credito, come si è temuto dagli anni duemila in poi, ma un eccesso di credito, nonostante le nuove procedure. Con Basilea 2 il rischio di credit crunch aumenterà? È discutibile; resta il fatto che Basilea 2 mette disciplina nella valutazione del merito di credito. Se non c’è disciplina un’impresa riceve credito o no in funzione dell’atteggiamento soggettivo del suo interlocutore individuale, invece Basilea 2 mette le imprese in condizione di maggiore certezza, di essere trattate tutte secondo meriti e non secondo l’atteggiamento soggettivo di chi gestisce la relazione, o della singola banca in funzione della propria propensione a erogare credito. Poi naturalmente tutto è perfettibile.
Draghi ha detto: svincoliamo i mutui dall’Euribor per calcolare tassi e rate. Quali parametri utilizzare?
È chiaro che il tasso è un prezzo, un prezzo risponde all’andamento dei costi di produzione, e il costo nostro di produzione è il tasso al quale ci indebitiamo. Oggi l’Euribor è un prezzo che riflette una situazione transitoria di liquidità dei mercati, e quindi è presumibile che chi indicizza oggi il proprio credito all’Euribor, si troverà meglio in futuro. Se questo debba indurre a cambiare il parametro o a rendere più fluido il mercato interbancario o a tutte e due le cose, io non so. È argomento di discussione.
C’è un deficit di informazione bancaria tra banca e risparmiatore? La crisi ha riproposto il tema della trasparenza?
Questo è un campo nel quale noi abbiamo bisogno di regolamentazione. La banca di fronte al risparmiatore si caratterizza per una posizione dominante, o quantomeno per il fatto di detenere asimmetrie informative. Ed è un fattore molto rilevante. Io mi sono formato in un mondo in cui si pensava che l’azionariato dovesse essere popolare, oggi la normativa Mifid ci induce a dare azioni solo ad un sottoinsieme qualificato della popolazione. Probabilmente è meglio se uno deve avere azioni, abbia un fondo di investimento azionario invece che la singola azione, però è chiaro che il rischio azionario è diverso dal rischio obbligazionario o dal rischio di obbligazioni statali. Non era scontato.
Qual è la rilevanza dell’«asimmetria informativa» che ha citato?
Il problema non è l’avidità delle banche che amano danneggiare il cliente, ma il fatto che le banche sono strette tra un mercato dei capitali – il loro mercato di capitali – estremamente competitivo, che giudica e valuta la banca sulla base dell’utile netto che produce, e il vincolo posto ad esse di non approfittare delle asimmetrie informative che la avvantaggiano. Per cui è giusto invocare la regolamentazione; e siamo noi a farlo più degli altri.
L’impressione, per ora, è che il nostro paese sia stato toccato meno di altri dalla crisi. È così?
Noi abbiamo fatto i conti con Cirio, Parmalat, l’Argentina… il problema è esploso in termini più specifici che generali, in un modo che non ha facilitato la percezione, nel pubblico e nei regulators, che non era un problema di Parmalat e Cirio in quanto tali ma di come, in generale, gestire il rapporto con clienti deboli. Dopo qualche anno ne siamo venuti a capo e le nostre banche si sono dimostrate pronte e all’altezza. In generale la crisi dei titoli tossici ha riguardato pochissimo i risparmiatori di tutto il mondo, perché sono le banche ad aver venduto i rischi e ad esserseli ricomprati per fare utili in funzione dei rischi che assumevano. Poi naturalmente tutti sono coinvolti perché poi “cade” il mercato, con tutte le conseguenze che questo comporta.
Dobbiamo temere altre gravi ripercussioni sul sistema finanziario?
Dopo il salvataggio di Dexia e Fortis l’onda d’urto è passata, i governi hanno salvato le banche scongiurando ogni rischio di fallimento. Il problema non è più un effetto domino finanziario, che avrebbe avuto conseguenze molto gravi, ma la trasmissione dei meccanismi della crisi finanziaria all’economia reale. Diventa un problema di ciclo, e quindi occorre aver pazienza ed essere accorti.