La crisi economica potrebbe aumentare la precarietà nel nostro mercato del lavoro. Ma diversamente da altri momenti di crisi economica e occupazionale, l’aspetto che caratterizza la fase in cui viviamo è la grande diffusione della precarietà: Boeri e Garibaldi nel loro saggio – da cui è tratto l’articolo uscito su Repubblica il 22 ottobre scorso – stimano in 4 milioni e mezzo i lavoratori precari, il 19% degli occupati. Per limitare la precarietà in un’epoca di crisi i due economisti propongono un contratto unico per tutti, a tempo indeterminato, flessibile all’inizio con tutele che crescono nel tempo. E l’introduzione di un salario minimo nazionale. Ilsussidiario.net ne ha parlato con Giorgio Santini, segretario confederale della Cisl.
Santini, Boeri propone un contratto unico per tutti per alzare la soglia minima di garanzia a tutela del lavoratore.
La crisi economica non la si può affrontare solo agendo sugli strumenti contrattuali come propone Boeri. Occorre prima potenziare gli ammortizzatori sociali, estendendoli – ma è una riforma che da anni stiamo aspettando – anche alle fasce che oggi ne sono sprovviste: penso alle piccolissime aziende e ai tanti lavoratori anche a tempo indeterminato che esse impiegano, ma anche ai lavoratori temporanei, somministrati e a progetto.
Abbiamo però una grande frammentazione di forme contrattuali e questo non aiuta.
Il problema che pone Boeri è serio: in Italia abbiamo una concezione della flessibilità del lavoro che è andata oltre il necessario, dando luogo ad una eccessiva articolazione di tipologie contrattuali. Se superiamo le forme di lavoro meno utilizzate o di nicchia sarà più facile introdurre elementi di tutela. Mi pare però onestamente difficile arrivare al contratto unico.
Perché?
Ipotizziamo che si faccia il contratto unico. Aboliamo l’apprendistato? Aboliamo il lavoro stagionale? Il lavoro interinale e il part time? Abbiamo già quattro tipologie rispetto alle quali il contratto unico mi sembra una indebita semplificazione. Ma c’è un altro problema: se il contratto unico scatta tutte le volte che si cambia lavoro – come è nell’ipotesi di Boeri – scatta anche per un cinquantenne? È difficile applicare strumenti rigidi ad una realtà molto frastagliata e diversificata come la nostra.
Che ne pensa invece dell’ipotesi del salario minimo per legge?
Mi sembra una semplificazione eccessiva. È vero, nel salario minimo c’è una giusta istanza di equità, ma non credo che adottando quello strumento la si possa soddisfare. Le istanze di equità vanno applicate facendo i conti con la realtà.
Torniamo alla semplificazione delle forme contrattuali…
Sono d’accordo che una semplificazione sia necessaria. Di tutte quelle vigenti le importanti quali sono? Direi il tempo indeterminato, il tempo determinato, l’interinale – e l’apprendistato, che però è di accesso – il part time e il contratto a progetto, che potrebbe essere di molto “asciugato” se si applicasse la parità contributiva. Ecco allora le due operazioni da fare: innanzitutto semplificare o riaggregare le forme contrattuali intorno a quelle più utilizzate: per esempio, scopriremmo che il contratto a termine è un altro modo di intendere il periodo di prova…
E la seconda cosa da fare?
Individuare due grandi trasversalità: la prima, dare a tutte le tipologie lavorative le stesse tutele in caso di perdita del lavoro (cioè ammortizzatori sociali omogenei per tutte le tipologie e le classi di imprese); la seconda, che progressivamente tutte le tipologie lavorative abbiano le stesse contribuzioni previdenziali. Che non ci sia cioè quel dumping previdenziale che in Italia ha falsato e sta falsando il mercato del lavoro.
Può fare un esempio?
La “bolla” dei co.co.co che c’è stata dal 1996 in poi è dovuta al fatto che per un contratto di questo tipo si pagava il 10% di contributi e quindi era molto più conveniente, al prezzo però di falsare il mercato del lavoro, creando posizioni fittizie. La legge Biagi ha in parte riformato questo processo, stabilendo una contribuzione più alta – ora siamo al 23% – e legando il lavoro ad un progetto.
Secondo lei è necessario uscire da una logica di tutela solo monetaria e andare verso forme di tutela non monetaria?
È un problema complesso. Direi di sì, se per tutela non monetaria si intende l’incremento della capacità di restare nel circuito lavorativo, il che vuol dire due cose: offrire alla persona un percorso di riqualificazione, che aumenti lo spettro delle sue possibilità di impiego. Qui ha ragione il Libro Verde quando dice che occorre passare da un welfare risarcitorio, centrato sull’ammortizzatore sociale “a perdere” – col risultato collaterale, per esempio, di creare lavoro nero – a un welfare proattivo e dinamico, che fa leva sulla responsabilità della persona.
Questa centralità della persona in concreto come si attua? Quali tutele mettere in campo?
Qui l’ammortizzatore sociale deve servire per riqualificare il lavoratore anche attraverso un rapporto attivo con i servizi all’impiego e con le agenzie del lavoro pubbliche e private, in modo da portare ad un reinserimento lavorativo.
Cosa manca alle relazioni industriali nell’assetto che hanno oggi perché possano offrire un contributo più decisivo al mercato del lavoro?
Non vedo favorevolmente la logica di uscire dalle tutele contrattuali; queste a mio avviso sono sempre necessarie e hanno ancora grandi potenzialità, per esempio se riusciamo fino in fondo a “varcare la soglia” della partecipazione, cioè a superare lo schema per cui nei luoghi di lavoro il fattore impresa e il fattore lavoro sono degli avversari che fanno un braccio di ferro, firmano un contratto e poi per tre anni tornano su fronti ideologici contrapposti. Vorrebbe dire uscire finalmente dalla logica che ha dominato i nostri anni ’70 e ’80.
Quali sono gli ambiti che possono favorire la partecipazione che lei auspica?
Su molti aspetti che riguardano lo sviluppo impresa e lavoratore possono agire insieme: è il caso del fattore prevenzione, salute e sicurezza. Così la formazione continua, ne ha bisogno l’impresa ma anche il lavoratore, per non veder deperire il suo patrimonio professionale. Più in generale, occorre incentivare al massimo una sussidiarietà delle parti che si affianca a quello che è il ruolo tradizionale dello Stato e della risorsa pubblica. Anche per questo la Cisl ha difeso il secondo livello di contrattazione, premendo perché avesse il rilievo e la centralità che non ha avuto in questi anni.