Dovete sapere che tra l’ottobre del 2006 e la primavera del 2007 mi sono trovato in disaccordo con quasi tutti i miei amici liberisti. E parlo dei miei amici economisti, alcuni dei quali scrivono dall’America su grandi giornali italiani, altri insegnano in America e guardano all’Italia in maniera un po’ più distaccata, ma per capirci molti di loro si riconoscono nelle tesi dei Francesco Giavazzi, degli Alberto Alesina, o di Alessandro Penati – che conosco da anni e di cui ho da anni grandissima stima. Con alcuni di loro c’è stato e c’è da anni da parte mia un continuo scambio di idee, sull’interpretazione dei fenomeni economici. Ebbene, questa crisi economica ci ha divisi.
Nel 2006 venne introdotto su uno dei mercati regolamentati americani l’indice Abx. Esso ha rappresentato l’inizio di un mercato vero su tutti i prodotti derivati della finanza strutturata. È stato proprio quell’indice a rendere per la prima volta evidente, a ottobre 2006, che in quel mercato c’era qualcosa che non andava. E i fatti, purtroppo, hanno verificato questa mia supposizione. Perché questa nella quale ci troviamo non è una crisi da mercato; è una crisi che viene dalla mancanza di una delle condizioni necessarie del mercato – almeno per chi ha l’idea del mercato che abbiamo noi. Il mercato, infatti, funziona per davvero dove c’è la minore asimmetria informativa possibile tra gli operatori. Ma il mercato dei derivati di credito smentiva perfettamente questo principio, già da molti anni.
Dicevo ai miei amici economisti: guardate che su queste operazioni si inizierà a far luce, e la luce porterà il sistema sin qui apparentemente operante e invincibile alla tenebra, perché questo è un mercato in cui la totale asimmetria delle informazioni tra operatori è il drive, il motore e la precondizione stessa che consente alle cinque maggiori banche d’affari americane di fare profitti spaventosi, di realizzare in e agli intermediari che seguivano il loro modello, in poco più di dieci anni qualcosa come utili pari all’intero Pil Usa di un anno.
Ed essi di rimando, mi rispondevano: non è così, perché questa crisi va interpretata unicamente come eccesso di inflazione dei prezzi degli asset immobiliari. Vedrai che ci vorrà il giusto tempo, mi replicavano, valutabile in base alle serie storiche, dopodiché i prezzi scenderanno e tutto finirà lì. Non è stato così. Quel sistema si è dimostrato fallace, drogato dalle migliaia di miliardi di dollari di utili che per troppi anni hanno accecato le intelligenze dei migliori accademici di tutto il mondo.
Dirlo non è consolante, ma questa è una crisi che si vede una sola volta nella vita. Non capita sempre di vedere le cinque maggiori banche di investimento americane sparire nel giro di una settimana. Anzi, capita una sola volta nella vita. Se prendiamo lo Standard & Poor’s 500 il giorno in cui è stato eletto Barack Obama, il termine di paragone del deprezzamento dell’indice dall’inizio del 2008 al 5 novembre ci riporta indietro al 1937, come precedente. Settantuno anni fa. E le crisi che si vedono una sola volta nella vita sono crisi sistemiche, epocali, e da persone intelligenti occorre sforzarsi di capire che cosa vogliono dire.
Innanzitutto, questa che viviamo è la crisi del modello di intermediazione finanziaria che ha fatto andare avanti il mondo negli ultimi 20 anni, un modello basato su un altissimo rapporto tra i mezzi propri – pochi – e le unità di capitale intermediato – elevatissime – e basato inoltre su una bassa congruità patrimoniale. Quel sistema è finito. Insieme a lui è finito anche un paradigma geopolitico della crescita internazionale, che però è andato ben bene avanti per vent’anni e ha consentito agli Stati Uniti di realizzare quasi il 60% in più del proprio Pil, grazie ad un meccanismo per cui la crescita finanziata in debito dei consumi privati americani era sostenuta da chi aveva interesse a incrementare quel mercato, in altissima espansione e a forte capacità di acquisto: non solo la Cina, ma soprattutto la Cina.
Questa duplice crisi ha conseguenze gravi: bisognerà reinventarsi strumenti e indicatori tecnici, definiti e adottati il più possibile in maniera uguale da una parte e dall’altra dell’Oceano; occorrerà reinventarsi la definizione stessa di che cos’è una banca e soprattutto un intermediario finanziario visto che le due cose non coincidono affatto, come invece purtroppo avveniva in questi anni; bisognerà concordare su nuovi criteri per valutare gli attivi patrimoniali; bisognerà intendersi su come ciascuna classe di asset all’attivo possa essere diversamente pesata a seconda dei rischi di controparte; bisognerà mettere ordine nella giungla scomposta dei regolatori americani, sui mercati finanziari, sulle banche e sulle assicurazioni, perché questa crisi è la crisi che nasce dalla loro sconfitta e dalla cecità di una politica, seguita sia dai democratici che dai repubblicani, che ha creduto che la finanziarizzazione crescente potesse meglio accrescersi con l’autoregolazione, e con il merito di credito “comprato” da agenzie di valutazione i cui bilanci dipendono dai denari degli operatori che esse in teoria giudicano. E tutti questi nuovi criteri non investono solo le attività finanziarie. Significa anche, inevitabilmente, che nuovi criteri verranno adottati dalla comunità finanziaria per scontare il capitale circolante delle imprese. Una quantità di nuove convenzioni da ridefinire ci attende per mettere ordine a questa crisi, tale da costituire un compito molto affascinante, e insieme anche molto, molto complicato. Ma non è tutto.
C’è un altro fattore su cui quei modelli di finanza ad alta leva fondavano il proprio presupposto e che è finito anch’esso: era il criterio paradigmatico per valutare e apprezzare il rischio sostenibile. Ed ecco che allora la crisi investe qualcosa che a me sta molto a cuore: la persona.
Perché i criteri con cui si valutava sostenibile il rischio investono la persona? Occorre una precisazione, che riguarda la figura e il ruolo dell’imprenditore nella teoria economica, prima che concretamente nella realtà dei mercati. Vedete, io non credo affatto che nella generalità dei casi l’imprenditore sia quello che ci descrive Schumpeter con una formula molto famosa, cioè colui che opera una “distruzione creatrice”, che rompe una situazione di equilibrio sul mercato o perché ha un’idea nuova, o perché sa trovare un’unità di capitale adeguata da investire in quest’idea, o perché intuisce genialmente nuovi consumi da soddisfare che altri non sapevano leggere né immaginare, e cosi via. La realtà dell’impresa italiana, fatta al 98% di piccole imprese, da persone che devono inventare ogni giorno condizioni pazzesche per sopravvivere e riuscire meglio degli altri, vista la nostra dinamica dei costi e le rigidità dei mercati del lavoro come delle regole, è fatta secondo voi di imprenditori che rompono una situazione di equilibrio? O da persone che sono costrette a resistere e progredire in situazioni di equilibrio precario, che devono fare i conti continuamente con diseconomie logistiche, infrastrutturali, di alti costi energetici e di fisco penalizzante? Va bene il modello schumpeteriano, ma finché si studia. Nella realtà italiana, quella concreta, io credo invece che l’imprenditore – come insegnava uno dei maestri di Chicago, Israel Kirzner – certo fa i conti con mezzi scarsi per realizzare il suo progetto, ma la sua grandezza, cioè che davvero lo “fa” imprenditore rispetto a chi non lo è, sta nel fatto che per farlo deve distinguere l’incertezza – che non è computabile, non è calcolabile, rappresenta qualcosa che in economia occorre prevedere ma che bisogna tentare di lasciare nell’angolo – dal rischio, che invece si misura finanziariamente e su cui da sempre si fa l’attività dello sconto. E lo sconto significa attualizzare a oggi i flussi di reddito e i flussi patrimoniali generati da un bene scarso per un certo fine. È evidente allora che sulla definizione e quantificazione finanziaria di rischio, sulle diverse convenzioni che nel tempo si adottano a tale proposito, è su questo che gira l’intera economia reale.
Ma quando si adotta per decenni un’idea di rischio tollerabile come quella che è stata alla base del modello di intermediazione finanziaria entrato in crisi, questo vuol dire che per vent’anni l’idea di rischio propria dell’economia reale è stata sempre più trascurata, perché non poteva strutturalmente avere multipli paragonabili alle soglie di rischio finanziario invece non solo tollerato, ma teorizzato e introiettato dagli operatori, e asseverato dalle autorità di regolazione come rischio sostenibile. Ecco perché un intero paradigma è tramontato.
L’Italia è un paese la cui dimensione d’impresa, piccolissima e piccola, è quella di cui dovremmo occuparci di più, anziché di pochi grandi nomi e grandi aziende. Dovremmo occuparci di più di quella parte dell’impresa italiana – il 98% – che ha per proprie caratteristiche dimensionali e organizzative la maggiore elasticità temporale nel dare le risposte al variare della domanda internazionale; di quell’impresa che in questi anni, in cui l’Italia ha perso quote in termini quantitativi sul commercio internazionale, ha iniziato a riposizionarsi sulla catena del valore, facendoci scrivere che questo riposizionamento ridava forza alla nostra manifattura. È un’impresa che, per le caratteristiche del sistema finanziario italiano, dipende tantissimo dalle banche.
Ma sono ormai otto settimane che, dopo i primi due provvedimenti del governo, a mio avviso molto giusti, varati per fronteggiare l’emergenza dell’eventuale necessità di ricapitalizzare qualche grande banca italiana che fosse entrata in difficoltà patrimoniale, ci si confronta invece sull’opportunità di agire “alla francese” oppure no, cioè se invece che intervenire per qualche grande banca che presenta qualche rischio patrimoniale, non sia più opportuno alzare la solidità patrimoniale dell’intero sistema. Come il governo ha fatto a Parigi, per tutte le maggiori banche nazionali. Nessuno ha dubbi su questo: la risposta è certamente sì. Pressoché unanime. Eppure, non lo fa e passano le settimane.
Vi invito a riflettere. Trovate scritto sui giornali il vero motivo per cui non lo si fa? No. Perché? Perché siamo diventati tutti responsabili e quindi non vogliamo far preoccupare gli italiani? Temo che la risposta non sia questa. Temo invece che la risposta abbia a che fare con gli effetti che il modello di intermediazione finanziaria del sistema bancario italiano esercita in concreto nel nostro Paese. E la mia opinione, su questo, è un po’ radicale.
Il nostro Paese rappresenta un’anomalia: negli altri paesi esistono intermediari finanziari non bancari. In America le imprese – piccole comprese – non dipendono dalle banche con la stessa intensità con cui dipendono dalle banche nel nostro paese. Le nostre piccole imprese non emettono commercial papers per scontare il proprio capitale circolante, o per finanziare le proprie attività di crescita. Da noi le aziende dipendono dalla banca, per il capitale di rischio come per il capitale di debito.
Allo stesso tempo però noi abbiamo un sistema di impresa che è più sottocapitalizzato degli altri, che ha un maggior rapporto tra debiti e patrimonio netto. Rispetto a questo sistema di imprese più solido, la grande banca italiana, che è più solida dal punto di vista patrimoniale e dice di non aver bisogno di interventi pubblici, ha storicamente – non dico solo oggi, ma storicamente, e oggi è naturalmente peggio – le carte in regola? Secondo me, no. Le banche italiane hanno applicato al rischio delle persone, piccoli imprenditori e imprenditrici, i sistemi di sconto del rischio che andavano per la maggiore in tutto il mondo. Anche da noi le banche facevano molti più utili dalle attività di trading che dal sostegno alle imprese, solo che da noi le banche, ed è stato un bene, non si esponevano a rischi patrimonialmente commisurati a quelli americani o di Deutsche Bank in Europa. Lo so che può sembrare paradossale, ma per molti versi io ribalto sul sistema bancario italiano ciò che viene normalmente dipinto sui giornali come motivo della sua maggior fiducia e solidità.
La realtà storica italiana è che, quando all’inizio degli anni Novanta adottammo il modello della banca universale, superando la netta separazione tra banche commerciali a breve rispetto al credito e medio e lungo termine, separazione che era stata saggiamente introdotta dalla legge bancaria del 1936, le banche italiane non avevano al loro interno – nella loro generalità – expertise e professionalità davvero capaci di saper valutare il credito industriale in maniera adeguata. Adeguata sia all’eventuale bontà delle idee degli imprenditori, sia alla condizione di generale sottocapitalizzazione dell’impresa italiana. Quel gap non è stato colmato, perché non è un gap che si sana in pochi anni. Occorrono due generazioni di banchieri, perché davvero la banca universale acquisti capacità di saper “affiancare” imprese diverse con strategie e disponibilità diverse, e non a parità di garanzie reali richieste per semplice eguale intensità di capitale intermediato.
Faccio alcuni esempi. È da considerare efficiente l’utilizzo che fa dell’altissima propensione al risparmio degli italiani il sistema – ed è l’unico – attraverso il quale passa il circuito “nervoso” finanziario del paese, cioè quello bancario? Dov’è la convenienza, se una percentuale così elevata di italiani investe una parte così consistente del proprio risparmio negli immobili, quando attraverso le banche si dovrebbero e si potrebbero convogliare risorse di medio e lungo termine – classicamente quelle impiegate a pagare un mutuo sono da collocarsi in tale orizzonte temporale – al sistema produttivo? No, non è un utilizzo efficiente: né per le famiglie, che vi impegnano troppa parte del proprio reddito disponibile senza per questo procedere poi alla vendita delle unità mobiliari per incamerarne l’apprezzamento nel tempo, né per il sistema produttivo che grazie a questo sistema non ha mai visto la nascita di soggetti istituzionali attivi nell’azionariato d’impresa. Il sistema bancario italiano nel suo complesso non risponde in Italia alle sane logiche del modello bancario territoriale o cooperativo, che ha mantenuto più solide radici nelle diverse realtà dei distretti produttivi italiani. E quel quarto di mercato bancario o poco più rappresentato appunto dalle banche popolari e cooperative, non ha mezzi patrimoniali e capitali intermediati paragonabili a quelli delle grandi banche che hanno di fatto assai allentato il loro rapporto col territorio.
Per questo dal mio modesto punto di vista, politici e banchieri sono coloro dai quali vorrei vedere oggi dimostrazioni assai più concrete. Vorrei che si toccasse con mano, che davvero in Italia ci si riavvicinasse a criteri di sconto finanziario del rischio di impresa proporzionati davvero alla fine di un mondo, che è bene sia finito perché teorizzava e praticava soglie di rischio “sintetiche”, frutto di tecniche e prodotti che nulla hanno a che fare col rischio d’impresa reale, e con quello delle persone che le creano e che ci lavorano. Altrimenti, la conclusione amara da trarre è quella di un mondo bancario solo a parole più solido di quello di altri Paesi, ma che nella sostanza è impegnato da mesi in una lotta sorda contro la politica che vorrebbe dargli una mano. Vorrei vedere da parte delle banche una resistenza meno opaca all’aiuto che la politica sta cercando di dare, non per mandare a casa i manager, ma per riportare su la solidità patrimoniale dei loro attivi, quella solidità che negli altri Paesi europei sta salendo molto più che in Italia. Vorrei vedere concrete unità di capitale intermediato a favore dell’impresa, rese disponibili e concesse con criteri diversi da quelli che abbiamo sin qui visto, e che sono testimoniati da centinaia se non migliaia di piccole imprese che oggi lamentano la restrizione del credito e dunque la necessità di tagliare o azzerare oggi gli investimenti, molto presto le piante organiche e i dipendenti. Perché nel nostro paese è tabù pubblicare le circolari delle grandi banche, che da mesi restringono il credito per ogni attività di impiego, mentre si legge invece sui giornali che questa restrizione di credito non c’è?
Vorrei una classe dirigente – politici, accademici, banchieri, imprenditori – capace di affrontare questi temi senza paura, senza dover esorcizzare ogni volta il fantasma e l’accusa di mirare a chissà quali golpe nella governance delle banche. Una classe dirigente che, guardando la storia del nostro paese, sappia dire agli imprenditori che ci vogliono nuovi metodi di sconto del rischio per le loro idee, e sappia offrirglieli in concreto.
Nuove possibilità di uscire dalla crisi possono venire, secondo me, soprattutto da qui. D’altra parte ci vuole una classe dirigente in grado di capire che la banca e la finanza non sono attività dominate da tecniche di arida contabilità e invenzione econometrica per far fruttare i soldi secondo multipli infiniti. Banca e finanza si fondano, sempre, su un’idea della persona. O la banca è per la persona, oppure la persona finisce per essere schiava della banca. Io sono per la prima ipotesi.