General Motors sembra in leggerissima ripresa, dopo il tonfo dei giorni scorsi a Wall Street. Fra le tre major automobilistiche americane (le altre due sono Ford e Chrysler) sembra la più esposta ai venti gelidi della grande crisi finanziaria. Ma anche le altre due prestigiose case sono in grande difficoltà. Martedì 11 novembre la Borsa americana assegnava al titolo GM un valore in dollari equivalente a tre euro, mercoledì appena qualche cosa in più. Ma secondo Deutsche Bank (anche se i pareri o i rating  sono diventati in questa stagione molto opinabili) il valore delle azioni Gm sarebbe uguale a zero. Con il valore di qualche cosa in più di tre euro, General Motors varrebbe complessivamente quello che valeva nel 1943. Una fatto che farebbe impallidire anche due dei fondatori del Wall Street Journal, gli imperturbabili signori Charles Dow e Edward Jones, che poi inventarono l’indice Dow-Jones.



Secondo alcuni analisti di grande livello europeo, come il capo Ufficio Studi di Mediobanca, Fulvio Coltorti, le tre grandi major americane potrebbero anche definirsi tecnicamente fallite e da tempo occupano grandi spazi soprattutto  con l’aiuto del marketing. Quello automobilistico è un settore molto maturo e il confronto con il gigante indiano Tata o con le prossime e probabili produzioni della Cina potrebbero diventare insostenibili sul mercato, per il prezzo determinato dal costo del lavoro e dai nuovi modelli. Difficile in tempi brevi, anche per le major americane, riconvertirsi a una “qualità di eccellenza” destinata a nicchie di mercato, dopo aver spopolato per quasi un secolo sui grandi numeri. Anche se un economista come Lanfranco Senn fa notare che il mondo globalizzato resta sempre una grande occasione. Nel momento in cui, con l’ultima spinta della globalizzazione all’inizio degli anni Novanta, circa un miliardo di persone del mondo sono entrati nell’economia, lo spazio per la produzione e la vendita di beni e servizi, quindi anche di automobili, dovrebbe esserci ancora.



Tuttavia il problema di GM è di quelli epocali, tanto è vero che l’amministratore delegato, Richard Wagoner, non si dimette solo «perché intanto non cambierebbe nulla». Il fatto è che un settore maturo della produzione è entrato in contatto prima con l’aumento del petrolio e delle materie prime, poi con il cataclisma della grande crisi finanziaria. Qui il cortocircuito sembra più rapido e più grave. I finanzieri e i grandi banchieri fanno notare che questa crisi non si può paragonare, almeno nelle cause a quella del 1929, perchè è nata dall’inflazione del credito su un piedistallo di denaro a basso costo. E’ quindi una crisi che è nata all’interno della banca e degli altri intermediari finanziari. Il meccanismo quindi da correggere, dato che la crisi del credito è crisi di fiducia e porta subito a una scomparsa della liquidità, è quello di fermare, quanto più possibile, la crisi sulla soglia delle banche dotandole della necessaria fiducia e liquidità.



Ma se si fa conto della maturità del settore automobilistico, della politica del credito e dei riflessi finanziari, è difficile pensare che la crisi finanziaria non possa aver investito e investire ancora un settore dell’economia reale come le grandi fabbriche automobilistiche. Per cui il problema diventa non solo di economia e finanza, ma di politica economica. Come direbbe John Maynard Keynes, con una delle sue frasi dissacranti: «A un certo punto gli economisti sono come i dentisti, dei tecnici, e conviene che si facciano da parte».

In effetti, considerando la crisi delle major americane e quella di GM in particolare non ci si trova solo di fronte a una gravissima crisi economica, ma a una sorta di “bomba sociale” che può formarsi. Ora, fare delle previsioni è molto azzardato, ma chi ogni tanto si esercita in questo campo, ritiene con qualche ragione che un fallimento di due gradi major comporterebbe una cifra che si stima, complessivamente, in tre milioni di disoccupati. Il che significa sofferenze, fatte alcune brevi stime, per una decina di milioni di persone. E di conseguenza, una zona come quella di Detroit, tra le più industrializzate e ricche del mondo, ridotta  a un grande parco disabitato di “archeologia industriale”. Per spiegare un simile scenario apocalittico, bisogna rifarsi al genio letterario, a scrittori come il francese Louis Ferdiand Celine che, nel suo “Viaggio al termine della notte”, ha saputo cogliere come pochi altri l’alienazione del lavoro ai tempi del taylorismo e del fordismo. Oppure a John Steinbeck che, con il suo “Furore”, resta il più classico interprete, quasi un pittore della grande depressione dopo il 1929, con un’umanità depressa e smarrita che batteva la “Route 66” alla ricerca di un posto dove poter ricostruirsi una vita.

Forse quello scenario non ci sarà, perché il mondo di oggi sembra in grado di affrontare simili problemi. Si dice che nell’incontro cordiale alla Casa Bianca tra il presidente uscente, George W.Bush, e il presidente appena eletto, Barack Obama, ci sia stato qualche attrito sulle misure di intervento per evitare una simile “bomba sociale”. Bush aveva già fatto un prestito statale di 25 miliardi di dollari al settore automobilistico che, sinora, sono serviti a poco, Obama ha in mente un intervento più sostanzioso e probabilmente strutturale. Tutto questo viene vissuto con un po’ di sofferenza in America.

Nell’attuale amministrazione americana, quella uscente, c’è chi difende il libero il mercato a volte in modo irragionevole, anche se non rifiuta interventi statali. Ma c’è anche chi ha crecato il “capro espiatorio” come nel fallimento di Lehman Brothers che, secondo il parere di molti analisti, è stato un disastro: «Farla fallire  è costato mille volte più che salvarla», ha detto un banchiere italiano come Roberto Mazzotta. E’ il caso quindi di valutare bene la situazione del settore automobilistico americano in crisi.

Se lasciato al suo destino, ripetiamo, si può arrivare alla “bomba sociale”, a cui basta poi un piccolo detonatore per deflagrare in modo. Il nuovo Presidente, Barack Obama, lo sta forse valutando nella sua complessità, con una politica economica che certo non mortifica il mercato, ma che, in questo momento, ha bisogno di supporti pragmatici, anche se hanno riferimenti keynesiani o roosveltiani. C’è chi asserisce che Obama sia stato eletto anche da Wall Street sull’orlo del collasso e, attraverso il vicepresidente Joe Biden, dai grandi sindacati che hanno cuore le grandi industrie automobilistiche, tanto quanto i loro proprietari. Di fronte a una prospettiva, che da mesi si vedeva, di collasso, tutti questi avrebbero investito sull’intervento statale e sul programma di forte carattere sociale di Obama. Tutto sommato non ci sarebbe affatto da scandalizzarsi. Nel momento in cui Obama riuscisse a contenere gli effetti della crisi finanziaria anche nell’economia  reale americana, avrebbe evitato uno dei peggiori cortocircuiti della storia del capitalismo nelle società occidentali.