È ormai in dirittura d’arrivo il piano anti-crisi predisposto dal Governo e contenente una serie di misure di sostegno alla crescita, da conseguirsi in larga misura attraverso lo stimolo della domanda pubblica. È prevedibile che vi siano comprese disposizioni quali lo sblocco degli investimenti pubblici, con maggiori risorse per le infrastrutture, così come provvedimenti per favorire la competitività delle imprese come garanzie sui prestiti per le Pmi e il versamento dell’Iva all’incasso e non dopo l’emissione della fattura. Si parla poi anche di incentivi all’innovazione, con interventi mirati al risparmio energetico.
Si tratta di misure in larga parte ragionevoli e condivisibili anche perché, in presenza di un debito pubblico al 104% del Pil, i margini per interventi di politica fiscale sono assai ridotti. Quello che serve con urgenza è semmai una forte riduzione degli sprechi nella Pubblica amministrazione, che deve accompagnarsi a una efficace razionalizzazione e qualificazione della spesa. Ci sarà tempo per valutare l’articolato complessivo dell’intervento del Governo, che dovrà anche comprendere alcune modifiche ai decreti di ottobre per rafforzare i processi di patrimonializzazione delle banche, e in tal modo favorire il ripristino di condizioni normali nell’accesso al credito da parte delle imprese.
Nell’attesa sia delle decisioni che saranno prese nel G-20 del 15 novembre prossimo e sia di ulteriori articolati piani di sostegno all’economia reale da parte dei Paesi Ue, vale la pena domandarsi quali siano state le cause vere che hanno sino ad oggi consentito all’Italia di essere il Paese probabilmente più al riparo dalle conseguenze, perlomeno finanziarie, della crisi americana. Crisi che ha preceduto (e certamente in parte causato) una delle recessioni globali più gravi dell’ultimo secolo. In effetti anche se le borse di tutto il mondo, compresa quella italiana, continuano a mostrare marcati segni di nervosismo con una volatilità davvero impressionante, nel nostro Paese le conseguenze reali sulle banche non sono state sinora così violente come in America, Gran Bretagna e Olanda (per non parlare dell’Islanda). A questo riguardo, sembra utile ragionare in termini di confronto prima tra l’Europa e gli Stati Uniti, e poi tra l’Italia e gli altri Paesi europei.
Per quanto attiene alle differenze tra l’America ed il vecchio continente, è certamente vero che la struttura di governance e di controllo sui mercati finanziari si è mostrata assai più solida in Europa che negli Stati Uniti, e questo ha contribuito in modo significativo a ridurre gli effetti perversi di comportamenti che nel migliore dei casi si possono definire eticamente discutibili ma che molto spesso sono stati scorretti al limite della fraudolenza. Ma in Italia gli effetti sono stati anche più ridotti che nel resto dell’Europa perché una parte consistente del nostro sistema creditizio appartiene a quella tipologia che complessivamente possiamo definire Banca del territorio, comprendendo in questa definizione le Banche popolari cooperative, le Banche di credito cooperativo e le Casse di risparmio rimaste indipendenti dopo la riforma degli inizi degli anni Novanta. Si tratta di un sistema formato da piccole-grandi banche fortemente radicate sul territorio ed ancorate ai valori della prudenza e della responsabilità.
In termini numerici, secondo i dati della Federazione Italiana delle Banche di Credito Cooperativo – Casse Rurali (BCC-CR), al 31 dicembre 2007 nel nostro Paese gli Istituti di credito appartenenti a questa tipologia erano 442 con 3.926 sportelli, pari all’11,8% del totale degli sportelli bancari, operanti in 98 province e 2.557 comuni. Analogamente, secondo i dati dell’Associazione Nazionale fra le Banche Popolari, al 31 luglio 2008 gli Istituti di credito appartenenti a questa tipologia erano 97, per complessivi 9001 sportelli (il 26,9% del mercato) con 9 milioni di clienti. Questa nostra peculiare tipologia di attività bancaria e creditizia ha saputo restare per nostra fortuna e, a nostro avviso non casualmente, quasi totalmente immune dalla ubriacatura della tecnofinanza anglosassone. Anche in periodi caratterizzati da un basso livello dei tassi di interesse, quindi difficili per l’attività bancaria, questi istituti di credito sono riusciti, come è nella loro storia e tradizione, a rimanere vicini agli operatori ed ai mercati locali e a instaurare e mantenere relazioni di lungo periodo con i clienti. Si tratta di caratteristiche che costituiscono un grande fattore di vantaggio competitivo e che hanno storicamente consentito di ridurre i costi derivanti dalla valutazione del merito di credito e hanno in tal modo anche permesso l’accesso ai finanziamenti bancari da parte di categorie di clientela che altrimenti ne sarebbero rimaste escluse. Questo nostro peculiare sistema bancario reticolare ha saputo nel tempo costruire capitale sociale sul territorio, e la fiducia così costruita, in un periodo proprio di crisi di fiducia, si è rivelata un asset strategico essenziale.
È dunque importante sottolineare che l’Italia sta risentendo meno degli altri Paesi degli effetti della crisi finanziaria non perché il suo sistema bancario sia più arretrato o addirittura sottosviluppato, ma perché una parte consistente di questo sistema è rimasto ancorato ai valori della prudenza e della responsabilità verso il territorio e la comunità, senza farsi coinvolgere nella ricerca del profitto sfrenato e della passione per l’azzardo. Non stiamo limitando i danni, dunque, perché abbiamo avuto la “fortuna” di avere un sistema bancario affetto da arretratezza culturale e incapace di utilizzare le moderne e sofisticate tecniche di investimento, ma piuttosto perché le nostre banche del territorio sono state capaci di non perdere di vista il bene comune. Il problema semmai è che questo modo di fare banca non è abbastanza diffuso. Si tratta di una conclusione che sino a pochi mesi fa sarebbe stata considerata offensiva dai moltissimi opinionisti che continuavano ad invocare una drastica riforma delle banche cooperative e popolari. Riforma che, paradossalmente, avrebbe dovuto permettere all’Italia di diventare finalmente più moderna e più europea!
Nella sua lunga ed articolata riflessione apparsa su il sussidiario.net di ieri sulle cause della crisi finanziaria Oscar Giannino prende su questo tema, per sua stessa ammissione, una posizione piuttosto radicale, con una valutazione fortemente negativa sul nostro sistema creditizio: “Il sistema bancario italiano nel suo complesso non risponde in Italia alle sane logiche del modello bancario territoriale o cooperativo, che ha mantenuto più solide radici nelle diverse realtà dei distretti produttivi italiani. E quel quarto di mercato bancario o poco più rappresentato appunto dalle banche popolari e cooperative, non ha mezzi patrimoniali e capitali intermediati paragonabili a quelli delle grandi banche che hanno di fatto assai allentato il loro rapporto col territorio”. È una considerazione a nostro avviso un po’ troppo estremizzata e forse anche un po’ ingenerosa verso molte delle nostre istituzioni bancarie, ma è una riflessione che complessivamente condividiamo nello spirito perché, cogliendo l’aspetto più significativo degli effetti della crisi finanziaria in Italia, mette in agenda la necessità di un potenziamento e di una valorizzazione (altro che drastica riforma!) di un modo di fare banca che ha saputo sempre anteporre la persona ad ogni considerazione di profitto. E su questo concordiamo in pieno con Giannino.
Abbiamo in casa un capitale di valore inestimabile rappresentato da banche che sanno porsi in relazione con i distretti industriali e con le piccole e medie imprese del nostro tessuto produttivo, e che costituiscono una risorsa preziosa di sportelli, depositi ma soprattutto finanziamenti a chi investe in attività produttive. Speriamo che, finita la fase peggiore della crisi, ci si ricordi che per rilanciare gli investimenti e la produzione, ed alleviare così gli effetti della recessione, le banche del territorio hanno un record di successi difficile da eguagliare.