Forse è poco di tendenza e non aiuta a “costruire” una notizia, ma oggi il vero bene essenziale che rischia di essere travolto, a causa della crisi economica a tutti nota, nel mondo del lavoro, non è il capitale finanziario, ma è il capitale umano, cioè l’insieme degli uomini e delle donne che laboriosamente prestano quotidianamente la loro attività professionale.



Chiunque viva la realtà del mercato del lavoro sa bene che, come non mai da molti anni, ogni giorno, vengono massicciamente realizzate procedure di licenziamento (collettive e individuali), e che le politiche di valorizzazione tout court delle risorse umane (la formazione, la flessibilità contrattuale, la produttività, ecc.) sono tra le prime a essere penalizzate e additate quali costi non essenziali e, quindi, da tagliare il prima possibile.



Questo atteggiamento “culturale” è miope perché non coglie un dato fondamentale della nostra epoca: la crisi dei mercati finanziari è stata principalmente causata dall’adozione – sostenuta anche politicamente – di una filosofia di businness fondata sulla speculazione, sulla valorizzazione di beni effimeri (la borsa, le stock options, le forme retributive indipendenti dalla valutazione dell’effettiva performance individuale e aziendale, ne sono gli emblemi più evidenti), incapaci di dare sostanza e futuro ad un modello economico stabile e futuribile.

Una possibile rinascita economica dipende, invece, dalla tutela e promozione sotto ogni profilo (politico, economico, giuridico, sociologico), del ruolo essenziale della persona/lavoratore, concepito quale vero e proprio patrimonio costitutivo di un tessuto produttivo. Soprattutto laddove, come in Italia, prevalga un sistema basato sulle Piccole medie imprese, senza ingenti capitali multinazionali o risorse naturali, la principale chiave di successo non può che essere rappresentata dal rapporto dinamico e virtuoso tra imprenditore illuminato e lavoratore con una professionalità accentuata.



Se viene meno questo rapporto, per esempio vessando la capacità di innovazione delle imprese ovvero non permettendo una gestione proattiva delle risorse umane, l’intera realtà aziendale diventa più fragile. Con conseguenze nefaste, non solo per la singola realtà produttiva, ma, a lungo andare, per l’intero sistema.

Le aziende, in altre parole, non possono pensare di arginare la attuale crisi economica, se non mettendo in primo piano quelle strategie gestionali in grado di valorizzare il contribuito, la produttività, l’efficienza del capitale umano.

Questo vuole dire, al contempo, varie cose. Responsabilizzare il lavoratore all’interno del tessuto economico in cui opera, significa, infatti, perseguire strategie variegate e multiformi che ben dovrebbero essere sostenute dallo stesso legislatore.

Sul piano patologico, per esempio, dovrebbero essere contrastate tutte quelle situazioni che di fatto rappresentano autentiche rendite di posizione. Il riferimento naturale è costituito dall’abuso degli ammortizzatori sociali, sempre più concepiti come strumenti per accompagnare “alla morte” realtà aziendali irrecuperabili e non, come dovrebbero teoricamente essere, quali fattori per un rilancio delle imprese frutrici. Rendite paradigmatiche – e quanto mai negative – sono inoltre tutti gli istituti legali e contrattuali che permettono di stravolgere il diritto alla malattia (quando mai, aldilà di qualche caso da notizia giornalistica, viene effettivamente controllato il lavoratore assenteista?), per non parlare, in relazione al contesto specificamente italiano, del diritto a trattamenti previdenziali (quanto a requisiti, modalità di percezione e non certo avuto riguardo al loro concreto ammontare) non riscontrabili in alcun altro paese occidentale.

Allo stesso modo, quando c’è aria di crisi, ritorna di moda la domanda sociale del posto fisso. In realtà, la stabilità occupazionale non è più compatibile con un mercato del lavoro che in re ipsa deve essere flessibile, ovvero in grado di adattarsi di continuo a esigenze mutevoli e che richiamano anche il singolo lavoratore all’adozione di una mentalità maggiormente positiva e responsabilizzante verso la collettività.

Ma non ci sono soltanto aspetti negativi da combattere. Momenti di impasse come quello che stiamo vivendo richiedono sforzi di fantasia e di coraggio.

Va pertanto premiata la capacità delle aziende di valorizzare beni essenziali, primo fra tutti proprio il capitale umano. La formazione del personale, l’adozione di forme contrattuali flessibili, l’utilizzo di strumenti che comprovano la ricerca di una sempre più diffusa produttività ed efficienza (il lavoro straordinario, le retribuzioni variabili, i bonus) ben dovrebbero richiamare il legislatore a precisi interventi premianti, prima di tutto a livello fiscale e di contenimento di costi indiretti.

La politica oggi ha realmente davanti questa sfida che, aldilà di ogni aspetto ideologico, richiede la capacità di rompere schemi fissi da decenni, di abbattere situazioni e compromessi che si sono drammaticamente consolidati. E, forse, la prima chiave di successo e di svolta per rilanciare il mondo del lavoro consiste proprio nell’assumere la centralità del capitale umane ponendolo alla base di precise scelte di governo.