Ilsussidiario.net ha intervistato Carlin Petrini, fondatore di Slow Food e di Terra Madre, sul tema dell’assemblea nazionale della Compagnia delle Opere: “Il tuo lavoro è un’opera”. Occorre abbandonare un’economia del fare – del fare rivolto al semplice prodotto, al risultato dell’opera – per un’economia della cura: «una componente umana, da cui nasce un atteggiamento più amorevole verso il lavoro stesso». La svolta che la crisi economica, frutto di una cultura individualistica del consumo, ci propone oggi è quella di una economia con più partecipazione, che si serve delle reti solidali e che si dimostra capace di bene comune.



Carlo Petrini, l’assemblea della CdO ha come titolo “Il tuo lavoro è un’opera”: quale riflessione le viene spontanea?

Penso a quella che io chiamo “economia della cura”, nel tentativo di lasciarci alle spalle una mera “economia del fare”. La “cura” esige un atteggiamento diverso, non solo rispetto al prodotto e al risultato, al capolavoro, ma anche rispetto alla condivisione stessa del lavoro. Ecco, chiamerei anche “amorevole” questo atteggiamento. È una componente umana che determina un rapporto col lavoro meno alienante. Ma aggiungo un altro fattore: c’è bisogno che il lavoro punti ad avere come obiettivo il senso e la costruzione di una comunità.



Cosa intende dire?

Parlo di reciprocità, di un senso della cura e dell’attenzione per l’altro. L’opera economica non può essere solo pro domo tua; serve un’impresa che porti elementi benefici alla comunità. Allora, dopo anni di un’economia che ha messo al centro il capitale e non l’uomo, io penso che la crisi che stiamo attraversando possa avere un frutto benefico, essere feconda di una nuova visione. Che non vuol dire tornare a logiche da socialismo reale, ma riproporre il valore di un’economia più partecipata.

Che cos’è il benessere?

Il benessere innanzitutto è star bene con se stessi. Ma se nella mia vita c’è solo il consumo, non è benessere, ma malessere. Ne abbiamo la prova: il supposto “benessere” ha generato le patologie che sono sotto gli occhi di tutti.



L’intuizione che sta alla base della CdO è stata quella di un gruppo di imprenditori che si sono messi insieme per condividere innanzitutto il senso del lavoro. Dalla sua cultura di provenienza come giudica questo?

Positivo. E penso che il dialogo debba continuare. Vedo che dalle rispettive strade da cui giungiamo abbiamo entrambi l’obiettivo del bene comune, e questo rende molto più facile metterci d’accordo, anche rispetto ad eventuali punti d’origine – rispettivamente nostri o vostri – che nel frattempo avessero perso la bussola. Oggi serve soprattutto un senso della reciprocità, della sussidiarietà e del bene comune; la convinzione che il proprio “particulare” non è tutto, ma ha bisogno di un punto di vista più ampio.

Nella CdO è sempre stata centrale l’idea che una rete di imprese risponde ai bisogni reciproci e crea sviluppo. Privato sociale compreso. Come giudica questa esperienza?

La stessa “Terra madre” è una rete. E non è per moda che lo si fa. È vero che una volta non c’erano gli strumenti, oppure il problema o il bisogno non si ponevano; oggi questo bisogno c’è e c’è anche, rispetto al passato, una maggior libertà di fare. La crisi attuale ha dimostrato l’insipienza di una certa modernità e io sono ottimista: sono convinto che farà lievitare le opere virtuose. Magari attraversando un lungo deserto: forse è questo quello che ci attende.

Cosa vuol dire in concreto mettere la persona al centro del lavoro?

Puntare tutto sul senso della vita. Senza questo “accento” o questo “sapore” nelle cose – nell’attività, nell’opera, nel lavoro o come la si voglia chiamare – la vita non ha senso. Esattamente come non ce l’ha se non si mette la persona al centro degli affetti, o della quotidianità, o dell’amicizia. L’alternativa alla persona oggi e il consumo: di sé e dei beni. Ma vediamo il disastro che ha portato questa scelta.