La preparazione di Bretton Woods richiese due anni di lavoro. Il vertice durò tre settimane: tanto ci volle per piegare le resistenze inglesi, difese da Lord Maynard Keynes, a favore di una valuta di riferimento comune, il bancor, a favore del dollaro.
Eppure, correva l’anno 1944, il primato americano non solo era basato su solide ragioni economiche, ma anche sui un primato politico che poggiava sul sacrificio dei soldati americani. Difficile, dato il precedente, che la Bretton Woods 2 possa veder la luce già nella prossima primavera nel meeting di Londra. Troppe le questioni aperte, sul piano politico e finanziario. Troppi problemi accumulati. Troppo poco il tempo, soprattutto, perché Barack Obama possa già rivendicare, a nome degli Usa, il rinnovo del consenso a una leadership incontrastata sull’economia globale: la fiducia, si sa, si smarrisce in un attimo. Ma ci vuole tempo per recuperarla.
Ciò premesso, a Washington non si poteva fare di più. Nel primo vertice a Venti, anzi a Ventisei (oltre ai Paesi del G8, i principali emergenti più i vertici delle grandi agenzie internazionali), i Grandi della terra hanno messo a punto le prime tappe per la ripresa.
Di fronte allo sconquasso dei mercati finanziari, che ha messo in fuga gli “Animal Spirits” del capitalismo, fondati sull’amore per il rischio di impresa, il team capitanato da Mario Draghi ha messo a punto un piano a cinque punti: 1) più trasparenza sui prodotti finanziari; 2) forte vigilanza sulle agenzie di rating; 3) prevenzione su manipolazioni e frodi; 4) cooperazione tra autorità di vigilanza e creazione di collegi per la supervisione delle operazioni transnazionali; 5) riforma di Fmi e Banca Mondiale aumentando il peso degli emergenti e del Financial System Authority (Fsa), presieduto da Mario Draghi.
Intanto, i leader del G20 concordano su politiche di rilancio basate su stimoli fiscali e l’utilizzo della leva monetaria. Su un terreno più politico, è di rilievo anche l’impegno per il Doha Round, il negoziato mondiale per la liberalizzazione dei commerci, risposta concreta al rischio di protezionismo.
L’agenda, insomma, è completa e ambiziosa. Forse troppo, al punto che, in tempi normali, si potrebbe parlare più di un’agenda di buoni propositi che non di un effettivo programma. Ma questi non sono tempi normali. E ciò imporrà decisioni rapide, magari a scapito della precisione chirurgica. E dolorose. Anche perché l’obiettivo, ha sottolineato Draghi è un sistema che «dovrà avere più capitale, meno debito, più trasparenza, più regole». Ovvero, un mondo più “povero“ perché avrà meno debito a disposizione. E dovrà affidare a regole e trasparenza il compito di distribuire giustizia.
Non sarà facile, soprattutto se la nuova amministrazione Usa non cambierà strada sul tema dei controlli sulle banche americane: che senso ha un sistema di controlli internazionali se non potrà avere accesso ai conti delle banche Usa? Per quanto riguarda Fmi e Banca Mondiale, non è un mistero che si deve procedere al più presto al riequilibrio delle quote tra Paesi in surplus (Cina, Medio Oriente,Giappone) e deficitari (Usa in testa). Ma questo inevitabilmente si rifletterà sulle scelte del Fondo. E sugli equilibri politici.
La causa profonda della crisi attuale sta nei debiti gemelli degli Usa (bilancia commerciale e dei pagamenti).Occorre perciò procedere a una ricostruzione dell’economia Usa (accompagnata in parallelo da una maggior forza della classe media). Ma questo richiede dollaro debole e calo dell’export dalla Cina. Pechino, che in questi anni ha sostenuto i deficit Usa dovrà rivolgere il suo surplus sullo sviluppo domestico, nell’obiettivo di ridurre drammatiche situazioni di povertà. Grazie anche alla governance assicurata dal Fmi. Non è facile avviare un processo virtuoso, in assenza di democrazia, per giunta. Ma è uno dei passaggi stretti necessari per la pace e per il benessere.
Anche l’Italia dovrà affrontare più di un passaggio stretto: Giulio Tremonti ha messo assieme un piano da 80 miliardi. Ma buona parte di questi capitali riguarda interventi già deliberati (ma fermi in sede amministrativa) o finanziati dall’Ue (ma colpevolmente parcheggiati in attesa di scelte della politica nazionale o regionale).
Bisogna muoversi, nella consapevolezza che Roosevelt non avrebbe fatto il New Deal se ci fosse stato il Tar del Lazio. Ma nell’attesa, l’unica medicina efficace riguarda gli sgravi sulla busta paga e una riforma dei sussidi di disoccupazione che preveda un ombrello automatico, buono per tutte le situazioni e non da vagliare caso per caso.
Sarà un grosso sacrificio, ma accettabile se, una volta tanto, costi e benefici saranno ripartiti con equità. E se servirà a far ripartire prima i consumi e, di riflesso, l’economia: sarà un sacrificio gradito.