Se ragionassimo con la testa di Beppe Grillo, oppure del suo massimo esegeta Marco Travaglio, dovremmo concludere che dietro al libro, già cult, di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi (La crisi, con una domanda retorica per sottotitolo: Può la politica salvare il mondo?, Il Saggiatore, 12 euro) si cela una sorta di ufficio-stampa-ombra delle agenzie di rating o di qualche grande hedge fund che manovra nel mondo finanziario internazionale. Ma fortunatamente non ragioniamo in questo modo, perché in primo luogo abbiamo rispetto dei due accademici-giornalisti e in secondo luogo perché siamo cresciuti alla scuola del comunista Giorgio Amendola, tanto dimenticato nel suo partito e nel suo Paese, che insegnava innanzitutto a combattere «lo schematismo, l’estremismo e il settarismo». Sostituite, settarismo (slang bolscevico) con faziosità e troverete la spiegazione di molte “sparate” mediatiche. In più, anche se La crisi è diventata subito una sorta di “bibbia” per gli editorialisti del Corriere della Sera come lo è per La casta, non pensiamo che non esista nessuna “bolla” di manipolazione mediatica, perché qualsiasi immagine complottarda ci dà fastidio e in genere non ci ha mai fornito alcuna valida spiegazione dei grandi fatti della storia.



Fatta questa premessa, riteniamo che il libro sia confezionato con un tono assertivo, spesso sbagliato e con un’idea di fondo che può accumulare nuovi errori a vecchi errori. Certo la grande crisi finanziaria mondiale è figlia di molte cause, quindi le agenzie di rating possono rappresentare solo un aspetto del problema, ma il fatto che i due professori dedichino a queste realtà solo diciotto righe, senza neppure fare un nome (pagina 44) lascia un po’ perplessi.



Con quale criterio oggi nel mondo si investe e si fa credito se non attraverso le agenzie di rating? E dati i risultati catastrofici delle triple “A” e dei criteri di affidabilità sbandierati, non viene proprio in mente ad Alesina e Giavazzi che si dovrebbe almeno porre una questione che appare quasi grottesca: chi fa il rating alle agenzie di rating?

Ci sarebbe poi un passaggio del libro, quello legato agli incentivi nelle remunerazioni dei banchieri. Pensiamo alle stock option, che hanno portato il management di Lehman Brothers a controllare quasi il 30 per cento della banca, e a inaridire (forse in tutto il mondo e in Italia senz’altro) la formazione di banchieri di prima qualità nel tempo, per un periodo medio lungo, formando invece dei professionisti a contratto, che sono ossessionati dalle trimestrali di cassa, dai bilanci lucidati e alla fine pensano anche, per legittima convenienza, a emigrare altrove. Secondo Alesina e Giavazzi questi incentivi nelle banche non hanno funzionato, ma (pagina 45) i due accademici scrivono: «È interessante osservare come invece abbiano funzionato piuttosto bene gli incentivi di fondi hedge, che spesso guadagnano più delle banche». Ed è questo il motivo per cui i fondi hedge avrebbero funzionato meglio durante la crisi.



Qui non c’è solo una difesa delle remunerazioni, ma anche una previsione in controtendenza che verificheremo nei prossimi mesi o nelle prossime settimane. Al contrario dei due accademici, c’è molta apprensione per la tenuta di molti fondi hedge. In genere è meglio astenersi da previsione avventate in una simile turbolenza finanziaria. Altrimenti si creano equivoci. Il 16 settembre 2008, ad esempio, Francesco Giavazzi quasi applaudiva al fatto che il Governo di Washington non salvava Lehman Brothers, indicando il rispetto delle regole di mercato. Passavano poche ore e quello stesso Governo salvava il colosso delle assicurazioni AIG. Ma a questo punto, Giavazzi non commentava più.

Siamo solo ai dettagli di questo aureo libretto, perché la tesi di fondo non sembra neppure la crisi, ma quel sottotitolo tanto retorico (“Può la politica salvare il mondo?”) a cui tutti sanno dare una risposta sensata e ragionevole: no, certamente. Anche se si potrebbe azzardare che, nel rovinare il mondo, la battaglia tra politici ed economisti, in questo periodo storico, potrebbe essere rappresentata da una partita di calcio drogata con un arbitro ubriaco.

La tesi di fondo del libro è comunque quasi un’ossessione dei due notissimi accademici, con cattedre al di qua e al di là dell’Atlantico e tribune giornalistiche di grande prestigio. La crisi finanziaria sta riportando indietro il corso della storia, secondo i due autori, perché si fanno richiami sempre più insistenti sul “primato della politica”, sulla necessità dell’intervento dello Stato, su forme di protezionismo e di statalismo come ai tempi dell’Iri italiano e dell’industria pubblica. In più, Alesina e Giavazzi citano (pagina 10) tra virgolette, senza attribuirla specificamente a qualcuno, una frase «Restituiamo allo Stato un ruolo egemone perché il capitalismo è finito». A chi si riferiscano precisamente non lo sappiamo. Ci sembra che il mondo, anche quello politico, sembra ormai liberato dalla sirene del comunismo reale.

E allora, a chi si riferiscono? Forse all’antipatico (per loro) presidente francese Nicolas Sarkozy? O al leader inglese Gordon Brown, che ha deciso in una notte l’ingresso dello Stato nelle più grandi banche del paese che è stato il padre del libero mercato?

Se invece si riferivano all’Italia, è difficile immaginare che l’azione dell’attuale Governo possa portare a simili affermazioni apodittiche, perché sinora il Governo italiano non è ancora intervenuto nel capitale delle banche e l’ipotesi è quella di un intervento tra i più leggeri. Un intervento a tempo, nemmeno con azioni privilegiate, ma con obbligazioni convertibili da immettere sul mercato e garantite dal Tesoro. Quanto alla difesa e alle supposte rinazionalizzazioni di imprese al momento non se ne ha alcun conto.

È vero che, speriamo al più presto, si dovrebbe fare una storia precisa di come sono avvenute le privatizzazioni in Italia e di chi, soprattutto, le ha gestite. È anche vero che la globalizzazione è un’occasione, ma che forse avrebbe dovuto essere meglio governata. Tuttavia, chi mette in discussione il libero mercato oggi in Italia? Probabilmente i “reduci” del comunismo italiano, quelli che facevano maggioranza di Governo con i postcomunisti, diventati improvvisamente democratici (per cui si lavorava su un programma didascalico: il liberismo è di sinistra) o i cattolici di sinistra che si sono sempre ispirati alla politica dell’ex presidente dell’Iri, Romano Prodi. Per fortuna, al governo e nella maggioranza, non ci sono più i sempiterni “innamorati” di Che Guevara, che nazionalizzava anche i coiffeur pour dames e i barbieri nell’efficientissima Cuba.

Ma la critica più insinuante è forse quella che Alesina e Giavazzi fanno a quelli che: «si compiacciono della loro economia sociale di mercato». I due autori si affrettano a precisare che con questa espressione (pagina 14) non si è mai capito che cosa si intenda e che mai sia stata spiegata. Probabilmente Alesina, anche se scrive sullo stesso giornale, non ha mai letto articoli e libri di Alberto Quadrio Curzio. Potrebbe fargli una telefonata e così avrebbe qualche chiave di interpretazione.

I due autori, essendo accademici di prestigio, non mancano poi di dotte citazioni. Si cita ad esempio il premio Nobel, Paul Samuelson, (pagina 89) a proposito di un’ironica precisazione sul commercio internazionale, ma chissà perché ci si dimentica di un’intervista di Samuelson uscita su “IlSole24Ore” dello scorso 5 novembre dove affermava, a proposito della crisi, in modo equilibrato: «C’è stato troppo liberismo, ora va evitato l’errore opposto». Impietoso, Samuelson aggiungeva: «Quello che mi sorprende ? L’ottusità del genere umano. Questa era una crisi annunciata».

Nel capitolo finale si scomoda anche il mai tanto digerito Jonh Maynard Keynes, con ampi riferimenti a uno dei libri più conosciuti, anche se non menzionato: Le conseguenze economiche della pace. Certo, Keynes andrebbe spesso citato, specialmente in periodi di crisi, se non altro perché, dopo il 29’ ( che non è affatto il 2008), salvò il libero mercato dall’ondata dell’ideologia comunista, allora trionfante, e dalle dittature di destra, interventiste in economia, come nazismo e fascismo. L’opera di Keynes è molto vasta (ha scritto anche un libro filosofico sul calcolo delle probabilità), ma certamente l’impronta principale di Keynes e dei keynesiani, veri o falsi (ma basta rileggersi un interprete fedele come Robert Skidelsky), è proprio quella di smentire sistematicamente i teorici del laissez faire, laissez passer. Ci permettiamo quindi di citare anche noi Keynes, quando sosteneva che a un certo punto è meglio che gli economisti, che sono come i dentisti, cioè dei tecnici, si facciano da parte.