Professor Deaglio, il G20 dello scorso sabato si è concluso con due affermazioni programmatiche: no al protezionismo e avanti con gli incontri allargati. È sufficiente?
Assolutamente no. Si tratta di buone parole che non cambiano di una virgola la situazione reale: i mercati se ne sono accorti e stanno perdendo di nuovo.
Fmi e Banca Mondiale sono istituti creati da Bretton Woods nel 1944. In un modo o nell’altro hanno affrontato i problemi posti da questi sessant’anni secondo paradigmi fissati allora. Qualcosa in essi non è più attuale e va cambiato?
Sì, va cambiato tutto. Cominciamo con la governance. Sono organismi in cui la struttura di potere economico emersa con la fine della Seconda guerra mondiale è riflessa tale e quale, in cui gli Usa hanno un diritto di veto perché hanno il 18% delle quote, ma per tutte le decisioni importanti ci vuole una maggioranza tale che il loro voto basta a bloccare le decisioni. E in cui i nuovi paesi emergenti, che hanno gran parte delle riserve valutarie del mondo, come la Cina, sono presenti con piccole quote che non rispecchiano il loro peso economico; si potrebbe continuare.
Quali sono gli elementi che frenano il cambiamento di queste istituzioni?
Al Fondo monetario, per esempio, è stato rimproverato di non avere più uno scopo. Poi si è parlato, sia “da destra” che “da sinistra”, di chiudere la Banca Mondiale e di sostituirla con banche regionali destinate ad aiutare particolari aree di povertà, pur di non avere un moloch che pubblica bellissime statistiche e studi molto pregevoli, ma che non giustifica un bilancio così grande come quello attuale. È una proposta. Sono però due o tre anni che si arriva alla soglia del cambiamento senza poi far nulla. E non si fa nulla perché gli Stati Uniti non lo vogliono e nemmeno lo vogliono i paesi europei, che perderebbero molta della loro notevole influenza nel governo dei flussi.
E la formula di vertici come G8 e G20? Come rendere più cogente il ricorso alle politiche prospettate in questi summit?
I “G summit” non hanno nessun valore per così dire istituzionale, sono riunioni informali. Nacquero come G5 durante la crisi petrolifera perché Usa, Gran Bretagna, Francia, Germania e Giappone dovevano consultarsi per decidere le politiche da adottare. I loro comunicati sono quasi sempre poco più che formali e l’ultimo vertice di sabato lo ha confermato. Con l’aggravante che al G20 di sabato, a Washington, il Paese più importante era ed è nel mezzo della sua transizione istituzionale più importante.
Come andrebbe riformata la mission di questi istituti?
È tutta da inventare e per farlo mancano le premesse politiche. Non possiamo disegnare un’architettura economica buona per tutte le stagioni. Nella struttura finanziaria dell’800 la Gran Bretagna, la piazza di Londra e la Banca d’Inghilterra avevano un ruolo assolutamente centrale. Ma tramontato il potere inglese, è anche tramontata quella struttura economica e se ne sono inventate di nuove. Di certo non è una cosa che si può fare a tavolino.
Basterà la nuova Bretton Woods?
Ora c’è una difficoltà in più. Nel ’44 era già abbastanza chiaro chi avrebbe vinto, e gli Usa avevano una economia più forte di tutte le altre messe assieme. Questo rese molto più facile arrivare a una soluzione, mentre ora non è chiaro il primato. La Cina è forte ma ha molte debolezze strutturali, nello stesso tempo ha anche il 50-60% di tutte le riserve mondiali in dollari. Sono nodi di non facile soluzione.
Qual è la sua valutazione del vertice di Washington?
Questo vertice vedeva in gioco due fattori distinti, che nelle valutazioni sono stati purtroppo malamente sovrapposti. Uno è il ridisegno del sistema, che – ammesso che ci sia un intento politico chiaro – richiederà mesi; e l’altro è una serie di misure esecutive e urgenti da attuare se possibile “stamattina”, sui mercati. E queste sono mancate: tant’è vero che quando qualche giorno fa si è saputo che Citigroup intende licenziare 50 mila persone, il Dow Jones ha perso quasi 2 punti.
Andiamo verso un mondo più “povero”, con meno debito a disposizione. Come fare per non farsi trovare impreparati?
Mondo più povero? Non è detto, la situazione è molto complessa. La nostra speranza è che i paesi emergenti riescano a crescere innescando un meccanismo di sviluppo virtuoso reciproco, anziché commerciando semplicemente con il mondo più avanzato. In tal caso la crisi potrebbe avere un effetto redistributivo e attutire i divari.
Il governo ha annunciato un piano da 80 miliardi…
Il nostro caso è particolare: viviamo una crisi nella crisi perché sono quasi dieci anni che l’Italia ristagna. Non lo abbiamo voluto riconoscere, dicendo che un tasso di crescita dello “zero virgola” era comunque qualcosa, quando invece così non è. Abbiamo accumulato un distacco ampio rispetto agli altri Paesi europei, essendo sotto la media del reddito dei Paesi Ue, ma continuiamo a dire che va bene così e questa sorta di autogiustificazione è l’aspetto più preoccupante, perché rappresenta il freno più efficace alle riforme.
Esiste un provvedimento più urgente degli altri?
No, supporlo sarebbe fuorviante e inadeguato. Occorre conciliare, armonizzandole, diverse misure possibili. Naturalmente una politica che abbia come obiettivo di dare un sostegno immediato ai redditi della fascia più bassa, con uno o più strumenti di detassazione, sarebbe una politica che probabilmente darebbe effetti più immediati. Il piano del governo mette un’etichetta nuova ai sussidi europei, ma se taglia in maniera sensibile le imposte, per dare più ossigeno ai redditi e ai consumi, rischia di trovarsi senza cassa. Non è una situazione facile.