La cosa migliore sarebbe quella di essere smentiti. Pensare che Telecom Italia sia ancora a un punto problematico di partenza e vedere settimana prossima, con le riunioni del 2 dicembre, che il colosso delle telecomunicazioni italiane abbia imboccato la tanto attesa strada del rilancio. Con un piano industriale che abbia la capacità di ridare appeal a Telecom Italia. È vero che la crisi finanziaria mondiale non offre spazi per grandi investimenti, ma è altrettanto vero che Telecom è da almeno due anni in una situazione di stallo. Solamente un anno fa si riuscì a risolvere il problema del nuovo management, dopo contorsioni e equilibri faticosi raggiunti tra i grandi azionisti di Telco, la holding di riferimento all’interno di Telecom. E quando non c’era ancora l’attuale paura sui mercati provocata dalla crisi, Telecom marciava sempre su un basso profilo con una lenta erosione del suo valore e allo stesso tempo un indebitamento che oggi rasenta i 40 miliardi di euro.
Tutto sommato il nuovo management non ha operato male, cercando soprattutto di razionalizzare all’interno dell’azienda. Ma è anche vero che, senza prospettive e senza grandi progetti, a furia di razionalizzare si può anche gestire la routine in modo migliore, ma non si può diventare un nuovo protagonista, un nuovo player delle telecomunicazioni sul mercato globale. Nell’ultima riunione del consiglio di amministrazione, quella di settembre, veniva annunciata, senza specificazioni, la volontà di entrare nel capitale di alcuni nuovi e importanti soci. Le voci sui libici, sui Fondi sovrani della Libia, è arrivata proprio a proposito del dossier Telecom prima che nella vicenda di Unicredit. Magari è stata un’abile mossa di depistaggio.
Ma non erano solo i libici, a quanto risulta, a essere interessati a Telecom. Di quelle new entry (che per alcuni versi possono essere discutibili) al momento, alla vigilia del nuovo cda del 2 dicembre non si parla più. Anzi, c’è stato un avvertimento arrivato da Madrid, dal direttore finanziario della spagnola Telefonica, Santiago Fernando Valbuena, che nuove entrate nel capitale di Telecom non sarebbero gradite, perché questo comporterebbe un ridimensionamento della partecipazione della società iberica, che è il socio industriale per eccellenza e quello che ha la maggioranza relativa in Telco, la holding di riferimento di Telecom.
Come è abbastanza comprensibile, Telefonica, entrata in Telecom nella primavera del 2007 dopo l’uscita di Marco Tronchetti Provera e della Pirelli, si è trovata abbastanza intrappolata. Cesar Alierta, il numero uno di Telefonica, deve giustificare ai suoi soci spagnoli un investimento costato 2,85 euro per un’azione che oggi traccheggia, a seconda delle giornate, intorno a un euro. Una minusvalenza, nel giro di un anno e mezzo, che raggiunge i 2,5 miliardi di euro e che non sembra tutto frutto della grande crisi finanziaria mondiale. Per Telefonica, uscire da Telecom significherebbe un “bagno di sangue”, restarci in queste condizioni, all’interno di Telco, significherebbe sempre avere un ruolo strategico, ma nell’impotenza di dare una svolta significativa. Che partita giocheranno a questo punto gli spagnoli?
Sul tavolo ci sarebbe al momento un’ipotesi, quello della cessione di Tim Brasil alla stessa Telefonica, con l’uscita della società spagnola dalla holding Telco e la permanenza in Telecom con una quota stimata intorno al 10 per cento. Ma non è affatto una soluzione semplice. Certo, a Telecom Italia arriverebbero in cassa qualche cosa, secondo alcune stime, come 7 miliardi di euro, ma in Brasile, con l’Authority brasiliana si scatenerebbe un pandemonio per la posizione dominante che Telefonica ha già nella telefonia mobile. Dati i trascorsi (l’anno scorso si attese sei mesi la decisione dell’Anatel brasiliana) e la situazione attuale, ci si troverebbe di fronte a un autentico percorso a ostacoli non facile da affrontare.
C’è un’altra ipotesi. Quella di affrontare una volta per tutte le scorporo della rete di Telecom, con una società apposita. Per farlo però, l’Authority italiana ritiene giusto che si facciano investimenti significativi per la rete di nuova generazione, abbandonando lentamente quella vecchia e sostituendola con la più sofisticata basata sulla fibra ottica. In questi giorni ci sono stati una serie di articoli e opinioni che sembravano un seminario tra ingegneri elettronici. Ma a parte queste considerazioni tecniche, non si capirebbe quanto ci guadagnerebbe realmente Telecom. Alla fine, anche se in questi giorni gli investitori premiano in Borsa il titolo Telecom, ci si affida soprattutto alle ulteriori razionalizzazioni e riorganizzazioni all’interno della società e alla probabile dismissione di altre realtà minori.
Ma quest’ultima soluzione, che appare sempre più probabile, sarà sufficiente a mantenere gli assetti proprietari attuali? “Sintonia” della famiglia Benetton (che sta al’interno di Telco) è stata piuttosto scettica, nel recente passato, a risottoscrivere un investimento così pesante. La Findim di Marco Fossati ha creduto in Telecom, arrivando sino al 5 per cento del capitale, ma reclamando fino a questa estate un rilancio della società e un nuovo piano industriale. La politica dal canto suo, sempre interessatissima a Telecom, sinora si è limitata ad affermare che Telecom deve restare italiana, che Telecom può avere nuovi soci anche stranieri, che c’è la necessità di sviluppare nuove sinergie.
La questione alla fine sembra legata ancora a una situazione di stallo, dove le sorprese positive non sembrano prepararsi in tempi brevi.