C’è una costante del pensiero autenticamente liberale (che poi è diventata uno dei presupposti delle liberaldemocrazie): la convinzione che fuori delle regole sia impossibile vivere. L’anarchia è un sistema utopistico che genera soltanto paurose conseguenze. Tocqueville si spinse addirittura oltre e disse che l’anarchia è stata smentita dalla storia. Nel corso dei millenni gli esseri umani hanno contemplato una vasta gamma di sistemi politici, ma mai l’anarchia è riuscita ad affermarsi, neppure un momento.



Curiosamente, questa che sembra essere un’ovvietà, è sfuggita a gran parte degli operatori economici dei nostri giorni che, in nome di un mercato “libertario”, che poi è la negazione del vero mercato, hanno preteso di dar vita a un sistema economico-politico anarchico, che qualcuno si è spinto fino a definire anarcomercato, sorretto da una concezione anarcoliberale.



Purtroppo, o per fortuna, quando si ha a che fare con i numeri legati alla quotidianità i nodi, prima o poi, vengono al pettine. La crisi che stiamo vivendo n’è la dimostrazione. La responsabilità non è da individuare solo in scelte più o meno recenti. Direi che è una responsabilità culturale che viene da lontano e che oggi, anche a causa di un’economia sempre più fittizia, esplode sorprendendo soprattutto quanti di tali visioni culturali si sono a lungo cibati.

Mi riferisco alle concezioni economiche iperliberali e socialiste che, assieme, hanno sempre dipinto la dimensione politica, e le sue regole, come sovrastruttura di una realtà economica definita appunto la struttura portante di tutto il sistema. Sia pur da prospettive e con intenti diversi, le due logiche hanno dato una lettura speculare della società civile e della sua dimensione economica.



La crisi odierna dimostra la fallacia di un simile discorso. Senza una realtà politica con un forte senso della legalità e del diritto, oltre che del senso del limite, non può esserci un reale sviluppo economico e, quando questo c’è per un breve periodo, non può che essere fragile e di breve durata.

Chi parla di rivoluzione industriale dimentica, direi responsabilmente, che essa fu possibile perché prima c’era stata, per circa un secolo, la rivoluzione dei diritti e delle istituzioni. A ben leggere la storia è stata sempre così. Quando si incominciò a parlare di tutela della proprietà, nacque il diritto privato proprio per tutelare i diritti della persona. Rosmini ricorda opportunamente che la parola proprietà deriva dall’avverbio prope, forma contratta che sta ad indicare pro persona. Il diritto privato era distinto da quello pubblico, ma quest’ultimo doveva creare quelle condizioni capaci di consentire a quello privato di operare e di esprimersi per il bene dei singoli. Da allora, un serio sviluppo della società civile, è andato di pari passo con la certezza del diritto e lo sviluppo democratico delle istituzioni destinate ad assicurarlo.

Questo è stato possibile perché, per un lungo periodo di tempo, società civile e diritto erano garantite all’interno di una dimensione politica autorevole e facilmente riconoscibile. Da gran parte dell’Ottocento in poi non è stato più così. Certo, la crisi è andata maturando pian piano fino ad esplodere in una dimensione “globale” nel momento in cui le regole possono essere aggirate non esistendo più un organismo capace di dettarle e, soprattutto, capace di colpire gli eventuali trasgressori. Da qui la necessità di richiamare la politica, e la riunione speriamo fattiva di un G20 sembra su questa strada, ad essere garante di un disegno che controlli operatori privi di scrupolo e aiuti e intervenga in quelle attività che il senso di solidarietà giudica più necessarie.

Ho detto che l’odierna crisi è frutto di una crisi culturale di cui non si vuole riconoscere la portata, anche se è davanti gli occhi di tutti. L’economia si orientata verso forme di egoismo individualista alle quali si è cercato di reagire con criteri di “centralizzazione democratica”. Il risultato è stato quello di dimenticare la dimensione morale dell’economia e le sue responsabilità etiche.

Come ha detto recentemente il Ministro Tremonti, citando Church and economy in dialogue dell’allora Cardinal Ratzinger, senza «una disciplina basata su un forte ordine politico e religioso» non è possibile evitare che le «stesse leggi del mercato» arrivino al collasso. Finché questo ordine ha retto, l’Occidente ha conosciuto, grazie al sostegno del Cristianesimo, un prodigioso sviluppo.

Gioverà ricordare, al proposito, che quando i giovani intellettuali ed economisti, artefici del riscatto economico tedesco del dopoguerra cominciarono a riflettere sulla crisi, diedero vita alla rivista Ordo (pure questa richiamata da Tremonti), ordine del mercato in linea con l’ordine costituzionale.