Oggi il Consiglio dei ministri si appresta a varare l’atteso provvedimento anticrisi. L’Europa con il patto Merkel-Sarkozy ha preso atto che la coperta è corta, che l’economia va rilanciata e che per farlo occorre più flessibilità rispetto al tetto del 3% del rapporto deficit/Pil, ma il nostro margine di manovra è ridotto. Occorrerebbero misure strutturali – dice a ilsussidiario.net Enrico Cisnetto, economista e giornalista – quelle stesse riforme che l’Italia attende da anni e che «abbiamo la responsabilità di non aver affrontato con la necessaria decisione». Ecco perché un ritardo potrebbe potenzialmente aggravare gli effetti della crisi economico-finanziaria che ha investito l’Europa, e con essi la situazione del nostro paese.



Cisnetto, quelle del governo le sembrano misure convincenti?

No, perché mancano le vere misure strutturali. Farei due osservazioni. La prima è che si è detto, giustamente: c’è la crisi finanziaria internazionale, comporta elementi recessivi, occorre reagire. Ma avevamo anche il dovere di dire che la crisi è un elemento aggiuntivo che si somma ad una crisi preesistente tutta italiana, con cause tutte italiane, che abbiamo la responsabilità di non aver affrontato con la necessaria decisione. Ma nessuno, né dal governo né dall’opposizione ha richiamato questo punto.



Ma i provvedimenti a suo avviso sono adeguati? Si parla di investimenti in infrastrutture, social card, blocco tariffe energia e aiuto sui mutui. Niente sgravio sulle tredicesime.

Vengo alla mia seconda osservazione. Assodato che sono interventi congiunturali, andavano fatte scelte più coraggiose e anche un po’ diverse, perché mi sembra che la natura degli interventi sia più legata alle famiglie e ai consumi e meno alla produttività. Quindi alla speranza che dando più soldi alle famiglie ci siano più consumi. Non nego certamente che ci sia chi ha bisogno, ma che si debba prendere come parametro solo il reddito. Occorreva invece, a mio avviso, privilegiare la produttività.



Perché?

Siamo un paese che ha un grande patrimonio privato – dovrebbe aggirarsi sui 10mila mld di euro – accumulato nel tempo, certamente distribuito in maniera diseguale, ma dobbiamo tener presente, per esempio, che l’85 o il 90% delle famiglie sono proprietarie della casa in cui abitano, cosa che non ha l’equivalente altrove in Europa. Sì, abbiamo un debito pubblico molto elevato, ma un debito privato relativamente basso. In un quadro di crisi, non sarei intervenuto assumendo come linea guida il fattore reddito/consumi.

Aumento dei consumi per rilanciare l’economia è un’equazione sbagliata? Non si può dire che le nostre famiglie godano di politiche fiscali favorevoli.

Ma la patrimonializzazione privata è diffusa e non desta allarme. Se così non fosse avremmo avuto già problemi sociali esplosivi, ma non è stato così perché il patrimonio è stato un grande ammortizzatore. Tutte le scelte di carattere sociale che sono state fatte dal centrodestra e dal centrosinistra non si sono mai tradotte in un aumento dei consumi, perché quei soldi sono andati a risparmio. Anche in chiave emergenziale continuo a pensare che il lato da privilegiare fosse quello delle imprese.

Il governo ha detto: sì aiuti alle imprese, ma solo attraverso le banche.

Ma qui i casi sono due: o le banche le si obbliga – ma per farlo lo Stato deve entrarvi, e quindi addio autonomia – oppure si fa azione di moral suasion. Ma se siamo davvero in una situazione di emergenza, che nessuno può negare, non possiamo affidarci alla moral suasion. Vanno adottati meccanismi che sappiano incontrare il bisogno delle imprese e oggi la loro necessità è la liquidità, la cassa.

Lei cosa avrebbe fatto?

Siamo il paese con il più alto ritardo nel pagamento delle fatture da parte delle amministrazioni pubbliche: abbiamo superato i 300 giorni, mentre in Francia vige l’obbligo che le amministrazioni pubbliche paghino i fornitori entro 30 giorni. Arrivare subito a 30 giorni sarebbe forse esagerato, ma se lo Stato pagasse le fatture in essere superiori ai 90 giorni di attesa, vorrebbe dire immettere liquidità nel sistema industriale e terziario per 10 mld di euro e si farebbe la sanatoria di una situazione scandalosa.

Citigroup, un altro simbolo del mondo finanziario angloamericano, è stato salvato dal governo Usa e i mercati sono andati alle stelle. Ma non sono mancate le polemiche. Zingales per esempio, sul Sole, ha scritto che sono «minate le regole fondamentali del capitalismo» e azioni come queste trasformano «la borsa in una ricevitoria di scommesse sulle azioni del governo». Che ne pensa?

Le distorsioni sono di tanti tipi e non per forza sono generate dal mercato. Ci ricordiamo di quando la Borsa nel 1998-2000 andava alle stelle sulla base della spinta della new economy perché le società della new economy venivano valutate sulla base del numero di clienti? Tiscali valeva più della Fiat, perché non facendo pagare l’allacciamento a internet aveva raggiunto non so quanti milioni di persone. Ma non definirei “clienti” quelle persone e nemmeno realistiche quelle valutazioni di Borsa. Allora non mi ricordo di aver sentito gli “ayatollah del mercato” dire che eravamo in presenza di una distorsione del mercato privato.

Morale?

Soggetti politicamente diversi di chiaro stampo liberale, dal laburista Gordon Brown al repubblicano conservatore Bush non hanno pensato due volte a fare interventi. Un conto è essere liberali con un approccio pragmatico alle cose, un altro è trasformare una concezione liberale in una ideologia – cosa che da liberale considero una contraddizione in termini – e metterla nel tabernacolo. Ma i politici non corrono questo rischio e lo sanno benissimo, perché “il mercato” non si presenta alle elezioni, ma loro sì.

Tremonti nella sua prolusione in Università Cattolica ha posto il problema del rapporto tra economia e etica. Come ricostruire una cultura della fiducia?

Guardi, chi chiede al capitalismo di essere etico mi è sempre parso molto sospetto. Occorre naturalmente intendersi. Se per etica si intende che occorre rispettare le leggi, ça va sans dire, non occorre essere né banchieri ne imprenditori né capitalisti; se invece per etica si intende che il capitalismo deve avere altre finalità rispetto a quelle del profitto, francamente credo che questo non possa essere affidato che ad una dimensione personale e culturale dell’azione economica. Direi che in ogni caso i problemi non sono risolti da una dose di sovraregolamentazione.

La crisi ha cambiato il ruolo storico dello Stato?

Secondo la scuola di Ugo La Malfa, penso che esista una posizione mediana tra lo statalismo e il liberismo ed è quella che accetta la dimensione superiore della politica, che per definizione deve mediare gli interessi, avendone il mandato democratico. La politica ha il dovere di intervenire dando le indicazioni strategiche, cioè facendo politica economica. Ma questo paese l’ha cancellata, perché o ha seguito lo statalismo, facendo i panettoni di Stato, o si è imbevuta di liberismo “scolastico” – la scuola di Alesina e Giavazzi per intenderci, che non mi vede in quella schiera – subendo un “effetto pendolo”. Non vorrei che l’effetto pendolo della crisi spingesse troppo dall’altra parte. Lo si farebbe se si mettesse il naso nelle banche, meno se si torna alle scelte strutturali. Ma per queste servono idee che stiamo ancora aspettando.