La crisi finanziaria internazionale sta mostrando con sempre maggiore evidenza il problema del debito americano. Per analizzare con chiarezza questo fenomeno è necessario fare qualche passo indietro nel tempo.
Quando Ronald Reagan iniziò il primo mandato (1981) il debito pubblico Usa era il 33% del Pil, ora è arrivato ad un livello superiore al 60%. La crescita continua del debito pubblico in rapporto al Pil è stata interrotta solo tra il 1996 e il 2000 durante l’amministrazione Clinton, mentre è successivamente ripartita sotto l’amministrazione Bush. Nello stesso arco temporale (1980-2008) gli Usa hanno continuamente realizzato consistenti deficit di parte corrente. Detto in altri termini, da quasi trent’anni gli Stati Uniti si stanno indebitando a ritmi crescenti, e ciò avviene principalmente nei confronti del resto del mondo (ergo gli elevati deficit di parte corrente).
In termini assoluti i valori del debito Usa non sono eccessivi: essi sono infatti nella media Europea, e all’interno dei parametri virtuosi del patto di stabilità e di crescita. Se confrontate con il valore del debito pubblico italiano (106% del Pil) o giapponese (oltre il 160% del Pil) le statistiche americane sembrano assolutamente virtuose.
Tuttavia il debito di un paese, così come quello delle imprese, non deve essere valutato solo in relazione al livello ma anche e soprattutto in relazione alla sua sostenibilità. Molti economisti hanno segnalato che la posizione estera americana era su un percorso di crescita non sostenibile e che prima o poi sarebbe stato necessario un aggiustamento più o meno brusco. Tale aggiustamento sarebbe dovuto passare per un mix tra una recessione americana e un deprezzamento del dollaro, cosa che si è puntualmente verificata. La crisi finanziaria ed economica a cui stiamo assistendo in queste settimane è dunque figlia di una situazione di lungo periodo che si è progressivamente deteriorata.
È naturale, alla luce di questa disamina, porsi la domanda del motivo per cui si sia potuti arrivare al punto attuale e del perché nessuno sia intervenuto per tempo a spegnere il focolaio prima che esso potesse divenire un incendio.
Per quanto riguarda la seconda questione emergono con sempre maggiore evidenza le responsabilità di chi era considerato sino a pochi mesi fa il miglior governatore che la Fed avesse mai avuto: Alan Greenspan. Quest’ultimo, infatti, non era preoccupato dell’elevato deficit di parte corrente americano perché era convinto che da una parte la crescente efficienza e diversificazione dei mercati finanziari internazionali avrebbe permesso ai vari paesi di sostenere livelli di indebitamento maggiori rispetto al passato; dall’altra che gli Usa non facessero altro che offrire un’opportunità di investimento ad un eccesso di risparmio presente a livello globale. Come da lui stesso ammesso in una recente dichiarazione, i fatti non gli hanno certamente dato ragione.
È invece interessante concentrare l’attenzione sulla prima e più decisiva questione: come è stato possibile per un paese vivere per così tanti anni al di là dei propri mezzi? L’indebitamento di per sé non è una cosa negativa. Quante imprese infatti si indebitano per finanziare investimenti! Anzi proprio grazie all’indebitamento e alla presenza di un mercato finanziario realmente disposto a rischiare sulle idee imprenditoriali, gli Usa hanno potuto intraprendere vere e proprie rivoluzioni quale quella della new economy.
Il vero problema è la degenerazione patologica che la cultura debitoria ha assunto negli USA negli ultimi dieci anni. In questi anni l’indebitamento americano ha sostanzialmente finanziato consumi anziché investimenti; consumi da una parte dello Stato e dall’altra del settore privato. Infatti lo Stato americano ha finanziato con il debito i tagli alle tasse e le cospicue spese militari della lotta internazionale al terrorismo e della guerra in Iraq. Anche il settore privato ha tuttavia fortemente contribuito a questa crescita perversa del debito. I consumatori americani hanno iniziato alla fine degli anni ’90 a consumare più di quanto risparmiassero, sulla base di aspettative eccessivamente ottimistiche relative all’andamento dei mercati finanziari. Una volta scoppiata la bolla del Nasdaq si è creata una altrettanto importante bolla nel mercato immobiliare che ha alimentato analoghe aspettative. Numerose famiglie hanno rinegoziato il mutuo di fronte all’aumento del valore della propria abitazione semplicemente per ottenere maggiore liquidità per la gestione corrente. Altre hanno contratto mutui maggiori della propria capacità di risparmio nell’aspettativa di una crescita continua dei prezzi degli immobili. Questa dinamica perversa è stata alimentata dalla politica di tassi eccessivamente bassi praticata dalla Fed dopo la crisi del 2001 (e qui entra in gioco ancora la responsabilità di Greenspan). Per numerosi mesi i tassi di interesse reali negli Usa sono stati negativi incentivando posizioni debitorie a tutti i livelli.
La radice del problema è dunque di carattere culturale: negli Usa negli ultimi anni si è diffusa una “cultura del debito” perversa che ha portato l’intero paese ad indebitarsi non già per finanziare investimenti produttivi, quanto consumi correnti. Sotto questo profilo la crisi attuale costituisce un forte richiamo alla realtà, ed è certamente salutare, anche perché ci obbliga a riportare la finanza nel suo alveo naturale e a considerarla per quella che è: un potente e fondamentale strumento che permettere all’economia reale di crescere. Se non utilizzata per questi fini, ovvero se non supportata da solidi investimenti reali, la finanza non può risultare generatrice di valore.