Il mercato dell’auto genera, in Italia, un giro d’affari pari a 51.067.578.293 euro a fronte di un numero di immatricolazioni di 2.513.955 unità. I dati sono riferiti al 2007, anno irripetibile, almeno a breve termine, in quanto a crescita del mercato e sono stati calcolati dagli studenti del Master sull’Automobile e pubblicati nella ricerca “Il mercato auto a valore” sotto l’egida dell’associazione dei costruttori.
Considerando il mercato dell’auto in termini non di volumi ma di valore, la ricerca ha stabilito che la Fiat è prima con il 17,9% (24% in volume), Ford è seconda con il 6,9% (8%), Bmw è terza con il 6,8% (3,2%). Per quote di mercato, la Fiat è passata dal 31,03% del settembre 2007 al 30,89% del settembre 2008. Un calo percentuale impercettibile che non dà l’impressione di un’industria tremendamente in affanno. Mentre ottobre 2008 ha fatto segnare un calo del 18% nel mercato italiano, nello stesso periodo Fiat ha risposto con -15%, aumentando quindi la sua quota sul mercato del nostro paese e portandosi vicina al 33%.
Sergio Marchionne ha confermato i target 2008 che prevedono profitti operativi tra i 3,4 e i 3,6 miliardi di euro (dai 3,2 del 2007) che dovrebbero, ma sulle previsioni dell’anno prossimo ci sono maggiori dubbi, salire a 4,3-4,5 miliardi nel 2009. Secondo uno studio di Pricewaterhouse Coopers, la Fiat è una delle cinque aziende europee che contribuirà di più alla ripresa della produzione in Europa nei prossimi 5 anni.
Nonostante questo l’azienda torinese ha deciso la cassa integrazione a novembre nello stabilimento di Mirafiori, dove si fermeranno tutte le linee ad eccezione di quella della Mito e, dal 3 al 9 novembre, alla Powertrain Stura di Torino e alla Powertrain Verrone (Biella). Provvedimenti che, da soli, sembrano aver convinto alcuni esponenti del governo a immaginare un nuovo ciclo di aiuti alla rottamazione dopo quelli già realizzati lo scorso anno.
Nel 2007 si sono concessi 80 euro per contribuire ai costi di rottamazione più 800 euro per chi ha comprato un veicolo Euro4 o Euro5, l’esenzione dal pagamento delle tasse automobilistiche per due anni (tre se il veicolo nuovo era inferiore ai 1300 cc), 1500 se l’alimentazione era a gas o gpl. Il tutto ha avuto un costo stimato per le casse pubbliche di poco più di 250mila euro. Un’inezia che dà il senso della sostanziale inefficacia della misura rispetto ai grandi programmi di rottamazione decisi tra il 1997 e il 1998.
A questo punto occorre chiedersi se nuove misure di incentivazione sono o meno giustificate. Le impressioni che si ricavano dai numeri dello stato di salute del settore in Italia (in Usa la crisi sta mordendo con una violenza decisamente superiore) sono diverse. Primo: l’auto, ovvero la Fiat, non se la passa poi così male come sembra. Secondo: per convincere gli italiani a cambiare (di nuovo?) auto devono essere messi in campo provvedimenti ben più incisivi, e quindi costosi, di quelli dell’anno scorso. Terzo: che gli incentivi siano allo studio per aiutare soprattutto l’indotto, in mancanza di strumenti di sostegno e aiuto dedicati alle piccole e medie imprese. Quarto: che la Fiat, anche dopo il miracoloso salvataggio di Sergio Marchionne, non riesca a sganciare la propria esistenza in vita senza periodiche iniezioni di incentivi.
Probabilmente c’è un’altra strada per un’industria per reagire alla recessione economica. La furia anti-mercato che ha travolto il mondo occidentale in seguito alla crisi finanziaria non ci fa più immaginare la possibilità che le singole imprese possano superare una fase, per quanto lunga, di recessione con le proprie forze, utilizzando i classici strumenti a loro disposizione.
Uno di questi è di accelerare progetti aggregativi senza il sostegno pubblico. Basti dire che nel primo semestre la Fiat aveva una liquidità di 4,7 miliardi di euro con debiti, dopo aver pagato dividendi per 535 milioni, pari a 510 milioni. Continuare a voler presidiare il mercato italiano, a costo di continui incentivi, è una politica rinunciataria, remissiva e perdente che è stata seguita per anni, solo per fare due esempi, dall’Alitalia e dal sistema bancario (unica eccezione: Unicredit) dove Mps si è dissanguato di 10 miliardi di euro per acquistare l’Antonveneta quando avrebbe potuto comprare un paio di banche commerciali estere.
Considerando per un momento non la Fiat ma il suo indotto occorre farsi un’altra domanda sulla efficacia delle misure che si stanno considerando. Probabilmente occorrerebbe una visione di più lungo respiro da parte del governo verso un nuovo modello di welfare state, dato che se per i lavoratori della Fiat la (presunta) crisi si traduce in cassa integrazione, per quelli impiegati nell’indotto si tramuta in licenziamenti veri e propri per la mancanza di un sistema di ammortizzatori sociali adeguato al sistema produttivo italiano.
Non è giusta la discriminazione dei lavoratori sulla base del fatturato e, quindi, del peso politico dell’industria della quale sono dipendenti. Se un intervento statale ci deve essere, esso dovrebbe essere orientato verso l’avvio di una riforma seria e non discriminatoria del welfare state. Invece di cercare di suturare una ferita applicando un cerotto sopra l’altro ogni anno che passa.