Il neopresidente eletto Barack Obama, dopo una battaglia elettorale condotta all’insegna del cambiamento e una vittoria che lo ha visto imporsi con ampio margine su John McCain, si troverà subito a dover fronteggiare la crisi finanziaria e la crescita negativa dell’economia Usa. Prima di tutto Obama dovrà modificare sostanzialmente il suo programma economico, costruito per una situazione completamente diversa da quella che si è trovato strada facendo. E il fattore decisivo è che durante la sua campagna elettorale la crisi è precipitata: la tendenza recessiva, che era già in atto a causa dello choc inflazionistico, è peggiorata drammaticamente come normale conseguenza della crisi finanziaria. In un solo mese l’America è passata dall’inflazione ad una deflazione violentissima che probabilmente creerà una recessione, cioè una contrazione del Pil, per circa tre trimestri, compreso quello che stiamo attraversando. Questo vuol dire che fino al giugno 2009 gli Usa saranno a crescita bassa e in piena fase di riequilibrio sistemico.



La crisi finanziaria complica la transizione e rende tutto più difficile. Bush concluderà il suo mandato nel momento più critico della picchiata della recessione. Finora la sua amministrazione ha fatto le scelte giuste, aprendo i cordoni della borsa e abbassando le tasse. Bernanke ha agito sulla leva monetaria diminuendo i tassi, cioè facendo quel che compete all’autorità monetaria: oltre quel limite solo i governi possono stimolare l’economia. D’altra parte Obama si insedierà il 20 gennaio, non domani. E fino a quel giorno è l’amministrazione in carica ad avere tutti i poteri. Alla domanda “cosa fare subito” per far fronte alla recessione in atto, la domanda va fatta all’amministrazione Bush e non ad Obama e infatti tutti sono curiosi di vedere cosa farà Bush, che ha i pieni poteri decisionali ma dovrà fare i conti con un Congresso a maggioranza democratica in entrambe le Camere.



Non sappiamo quali misure Bush potrà prendere, sappiamo però cosa dovrebbe fare: abbassare le tasse il più possibile, definire programmi di spesa pubblica per sostenere l’industria, in particolare quella automobilistica che rischia il tracollo, definire crediti agevolati per dare più capitale possibile a famiglie e imprese, alle famiglie per consumare e alle imprese per investire. Si dovrà prestare molta attenzione alla velocità con cui il credito si riprende, perché se questo avverrà troppo lentamente saranno necessarie operazioni di sostegno al credito alle imprese. È un’operazione che l’amministrazione Bush ha in piano di fare, ma se la crisi si aggrava non basterà.



In questa situazione cosa può fare il presidente eletto? Prima del 20 gennaio può governare solo con le parole: deve saper governare le attese, quindi governare la fiducia, cioè dire le cose giuste al mercato. Il che vuol dire innanzitutto, in questo momento, convincere i consumatori che le cose andranno meglio anche se, nel frattempo, essi devono senz’altro ridurre il loro debito privato, per esempio rientrando del debito sulla carta di credito; a patto però di non ridurre a zero i consumi per non penalizzare eccessivamente la crescita. Poi deve governare le attese di fondo sull’economia americana: se enfatizza troppo i programmi assistenziali o programmi difensivisti di tipo protezionistico, rischia di deprimere gli investimenti.

Obama dovrà cercare di essere ottimista e rassicurante, come ha fatto in campagna elettorale, facendo molta attenzione a non entrare nel merito delle scelte tecniche, lasciando che l’amministrazione Bush faccia le operazioni di emergenza. Ma Obama lo sa benissimo, perché se la situazione dovesse deteriorarsi potrebbe sempre imputarlo a Bush. In questo momento, paradossalmente, il vero protagonista della politica economica americana non è il vincitore Obama, ma l’amministrazione uscente. Sarà lei a decidere quanto lunga e quanto dura sarà la recessione.

Obama si trova dunque di fronte al primo “bivio” politico del suo mandato. Da un lato la scelta di fare quello che ha fatto finora: alimentare la speranza di cambiamento e il sogno americano. Dall’altro attuare una collaborazione con il presidente uscente per condividere un progetto di gestione della politica economica di emergenza. Per il mercato sarebbe la cosa migliore: vedrebbe che c’è un America coesa e forte, che fa le cose giuste quando serve. Ma è anche la strada più difficile, perché Obama rischierebbe in tal caso di presentarsi come un presidente molto debole e senza idee. Realisticamente, allora, la prima strada è la più conveniente.