Il dato centrale che meglio spiega le motivazioni della finanziaria varata dal Governo è il differenziale dei tassi di interesse rispetto a Germania e Stati Uniti per le nuove emissioni di titoli di Stato: per i titoli di riferimento il differenziale d’interesse era, venerdì, di 1,21 punti in più di tasso di interesse rispetto alla Germania e di 1,47 rispetto agli Stati Uniti. Ciò rappresenta un brusco aumento rispetto a solo un anno fa: a fine dicembre 2007 il differenziale di rendimento tra il Btp rispetto al corrispondente titolo tedesco era infatti di 0,35 punti percentuali.



Il Financial Times di venerdì 28 novembre sottolineava l’inusuale difficoltà incontrata da Gran Bretagna e Italia per la collocazione dei loro titoli di Stato il giorno prima, giudicata dagli analisti come «un segnale inquietante del fatto che il finanziamento del debito potrebbe diventare ancora più difficile nei prossimi mesi».



Il cosiddetto dividendo dell’euro del 1999, cioè la possibilità di finanziare il debito ai medesimi tassi tedeschi, o quasi, rischia di evaporarsi. Il riflesso sui conti pubblici sarebbe, per quanto distribuito, di un importo rilevante, poiché un premio di rischio sul debito italiano pari stabilmente a un punto aggiuntivo di tasso d’interesse rappresenterebbe un onere aggiuntivo di spesa pubblica di circa 15 miliardi sullo stock del debito pubblico, pari al 104% del Pil nel 2007 e per il 51% detenuta all’estero.

Il sentimento oggi prevalente sui mercati internazionali è che ancora non si sia toccato il fondo, di qui brusche accelerazioni e ripieghi, mentre sul mercato italiano incombe il potenziale squilibrio del settore immobiliare, peraltro all’origine della attuale grande crisi partita dagli Stati Uniti e ormai propagatasi per i numerosi rami della globalizzazione.



In questo senso la finanziaria appena approvata risponde all’esigenza centrale di creare una cintura di sicurezza intorno all’economia italiana, per difendersi dalle improvvise ondate della globalizzazione con un rafforzamento della diga intorno alle istituzioni finanziarie nazionali: l’obiettivo è quello di traghettare il Paese nel prossimo difficile anno di crisi e, si spera, anche di ripresa.

Per le imprese i provvedimenti sono numerosi e alcuni, come il pagamento dell’Iva al momento dell’effettivo incasso, ben mirati: rimane tuttavia il nodo del come far affluire liquidità e credito alle Piccole e medie imprese. Così come sarà necessario affrontare in modo altrettanto mirato, e flessibile, la questione della Cassa integrazione per i lavoratori, per evitare il deteriorarsi di quel patrimonio di risorse umane che rappresenta il vero capitale per il futuro. Bisogna fare di tutto perché il costo della crisi non si scarichi sulla famiglie dei lavoratori.

L’obiettivo della tenuta e stabilità del Paese sarà infatti raggiunto con maggiore efficacia quanto più sarà attento al valore dell’equità sociale: nel mondo economico stanno prevalendo comportamenti improntati a una sobrietà consapevole della difficoltà del momento e alla necessità di affermare valori di solidarietà sociale. La manifestazione e la pratica del consumo di lusso non sono più considerati come affermazione di successo ma di ingiustizia sociale e come tali giudicati.

La questione centrale appare oggi quella del come il Paese riemergerà dopo la crisi e in questo senso occorre mettere in campo nuove idee, che affrontino i nodi centrali del Paese primo dei quali quello della famiglia.

Non è forse casuale che la Francia, Paese che della politica familiare ha fatto il centro delle sue politiche sociali, sia anche quello che ancora tiene sul piano crescita economica e che probabilmente registrerà i minori problemi nel processo di trasformazione in atto.

La stampa ha giustamente sottolineato la novità di un bonus alle famiglie commisurato al numero dei suoi componenti, in particolare i figli, con un’inusuale attenzione alla questione della disabilità in famiglia. È un passo nella direzione giusta, quello cioè di un quoziente familiare sul modello francese: l’equità del quoziente familiare consiste nel fatto di eliminare la progressività dell’imposta personale legata alla differente numerosità del nucleo familiare. Il quoziente familiare elimina una palese ingiustizia, ma rappresenta solo l’inizio di una politica familiare.

Il nostro è un Paese nel quale le difficoltà economiche, misurate dalla povertà relativa, crescono sensibilmente all’aumentare del numero di figli e forse è anche per questo che dalla fine degli anni ‘60 a oggi il numero di nuovi nati, cittadini italiani, è crollato da più di un milione a meno di mezzo milione. È questo il nostro vero futuro, ma è anche il pezzo di un Paese che riemergerà ancora più provato dopo l’attuale grande crisi.

Il quoziente familiare, oltre che rientrare nel programma dell’attuale governo, ha un costo (per le famiglie prima che per il fisco) di dimensione sostenibile e pari a circa 8 miliardi, il che potrebbe rientrare come la prima mossa di legislatura per un politica per la famiglia che sia davvero comprensiva, cioè attenta e globale alla molteplicità dei suoi ruoli ed esigenze. E in questa prospettiva la situazione del nostro Paese è purtroppo molto lontana sia dalla Germania che soprattutto dalla Francia.

Al tempo stesso è necessario riprendere seriamente in esame lo strumento dell’Isee, una versione all’italiana del quoziente familiare che nei fatti serve a penalizzare le famiglie anziché favorirle. Al di là delle migliori intenzioni di chi lo formulò, l’attuale applicazione dell’Isee è una grave fonte di diffuse irregolarità oltre che uno strumento spuntato di equità fiscale di fronte all’evasione fiscale esistente. Allontana, anziché avvicinare, i cittadini allo Stato.

Si deve quindi valutare con qualche preoccupazione la proposta del governo sulla carta sociale, una carta di credito per i beni alimentari modellata sull’esperienza statunitense dei food stamps, perché è elevato il rischio di sprechi di risorse pubbliche limitate, male indirizzate. La Social Security americana può contare su un supporto di informazioni fiscali molto più attendibili di quelle italiane.

E allora la domanda più generale che ci si pone, sia per la carta sociale che per il mercato immobiliare, è se la finanziaria della grande crisi non sia anche l’opportunità per avviare la riforma sul federalismo fiscale, con i nuovi spazi di responsabilità e informazione sul territorio che con ciò si realizzerebbe.

Le crisi sono momenti decisivi per i grandi cambiamenti e una nuova politica per la famiglia congiuntamente a una effettivo federalismo fiscale sono due provvedimenti che possono davvero irrobustire la nuova Italia che uscirà. L’importante è cogliere questo momento favorevole.