Sarà pur vero che gli americani guardano al modello europeo, ma la differenza tra le due sponde dell’Atlantico è impressionante. La distanza è tutta in queste cifre. Barroso vuole che le politiche di stimolo economico della Ue impieghino risorse pari all’1,5% del Pil (finora sono a un misero 0,8). Bush e Obama si sono mossi con la potenza di fuoco loro disponibile: prima hanno salvato le banche (700 miliardi del piano Paulson, più 800 miliardi per lo sportello presso la Federal reserve); adesso tocca all’auto (15 miliardi); poi alle infrastrutture (altri 500 miliardi). Il tutto per una quota superiore al 13% del prodotto lordo, nove volte l’obiettivo ottimale della Commissione di Bruxelles. E probabilmente non è finita. Bisognerà rilanciare il mercato immobiliare. I valori sono scesi, ma restano ancora troppo alti e s’accumula lo stock invenduto. Infine, occorre capire che cosa vuol fare Obama con le tasse.



Ci si chiede se il deficit spending (che ieri ha avuto il viatico dell’Ocse) non sia eccessivo. Il disavanzo pubblico americano è già cresciuto, raggiungendo la bellezza di 455 miliardi. Se però lo calcoliamo in percentuale, arriva ad appena il 3,2% del Pil. Quanto al debito accumulato, per ora anch’esso è nei limiti. Insomma, è come se gli Usa rispettassero i parametri di Maastricht. Con gli interventi già decisi, il debito federale potrà avvicinarsi al 90% del prodotto lordo e il disavanzo a quel 6% che rappresenta la quota record del dopoguerra. Il vero problema non è quanto deficit si accumula nella fase bassa del ciclo, ma quando sarà colmato e come viene finanziato.



I pareri sulle prime mosse di Obama sono, al solito, diversi. Una cosa, però, è certa: l’Europa appare ancora una volta timida e divisa rispetto all’approccio americano. La Merkel non ha dato prova di energia né di lungimiranza e la Germania si illude di potersela cavare grazie alla potenza della propria industria esportatrice. Mentre dovrebbe essere lei a prendere la guida, con una politica di espansione della domanda interna attraverso la leva fiscale (tra l’altro è l’unico Paese di Eurolandia con il bilancio pubblico ancora in ordine). Le ripicche di Sarkozy e di Gordon Brown appaiono un meschino gioco fanciullesco.



L’Italia, cauta fino alla timidezza, evoca persino il rischio Argentina. Tutti, chi più chi meno, hanno cercato di mettere i materassi alle finestre. Aspettando che passi la bufera. O meglio, che siano di nuovo gli Stati Uniti a rimettere in moto il motore bloccato. E, probabilmente, così sarà.

Il rischio, però, è che si riproducano gli squilibri strutturali pre-crisi: gli americani consumano troppo, gli europei risparmiano troppo e i cinesi tesaurizzano. Senza ricorrere all’eterno archetipo del governo mondiale, basterebbe che i governi, quelli che ci sono adesso, si mettessero d’accordo su una politica comune. Che non vuol dire fare tutti le stesse cose. Al contrario. Il rilancio nei grandi paesi europei deve avvenire sostenendo la domanda interna, in Cina rivalutando lo yuan, negli Usa aumentando il tasso di risparmio.

Invece, nonostante tutti si riempiano la bocca con la parola “coordinamento”, continua a prevalere l’orticello di casa. E non saranno apparati diplomatico-istituzionali come il G20 a colmare il vuoto, se manca la volontà politica.