Disse il saggio: è più naturale veder volare in cielo i pesci rossi che banchieri comprare titoli che non rendono nulla, anzi che hanno un rendimento negativo. Ma il saggio, in questa pazza crisi, ha sbagliato: il Tesoro degli Usa, quello che secondo il futuro responsabile Timothy Geithner deve «diventare un po’ italiano» (non è un complimento, of course), ha piazzato 30 miliardi di dollari a un tasso medio di poco superiore a zero. Addirittura sotto, per alcune tranche a tre mesi. Il che vuol dire che gli interessi pagati dai Tbond per incassare più del doppio di quanto stanziato dal Congresso per salvare l’auto americana dal Tesoro, ammonta a 300mila dollari. Ovvero, la provvista per evitare il crack di Gm e di Chrysler e l’agonia di Ford comporta interessi per 150mila dollari. A vostra scelta, quattro Suv, piuttosto che quattro giorni di paga di José Mourinho. Anche questo può succedere nel mezzo di una situazione finanziaria che stenta a trovare un qualsiasi equilibrio, per fosco che sia.



Le terapie adottate dalla banche centrali sembrano quelle giuste, ma le metastasi che si accumulano sull’economia globale si clonano a velocità supersonica: ora tocca agli hedge fund toccati dalla truffa di Bernard Madoff, probabilmente non l’unica; domani la frontiera del rischio riguarderà le carte di credito. E, naturalmente, i prestiti sulle auto, una montagna quasi incalcolabile in un Paese, gli Usa, dove il finanziamento degli acquisti a quattro ruote, nel 2007, aveva toccato il 120% del valore del parco macchine. Ovvero, negli anni del credito facile, era comune restituire al dealer la macchina (solo in parte pagata) per acquistarne un’altra nuova aumentando il debito, magari a tassi di interesse inferiori. Oggi il meccanismo si rivolta contro produttori e consumatori: ridurre il credito già concesso non è possibile, pena il disastro; concederne di nuovo è altrettanto difficile. In queste condizioni, perfino la stima di 11,5 milioni di vetture vendute nel 2009 contro 13 del 2008 (erano 17,4 milioni nel 2006) sembra troppo ottimistica. 



L’ultima pazzia (forse) di quest’anno bisesto è questo finale a tutta suspense del Senato Usa. I senatori neocon repubblicani hanno deciso di bocciare l’intesa, recitando il ruolo dell’ultimo dei giapponesi nella giungla, deciso a non arrendersi mai alla filosofia statalista, nemmeno dopo la disfatta dell’imperatore Bush II. Alla fine il presidente uscente ci ha messo una pezza, aggirando gli ex fedelissimi facendo sua la battuta, riferita dal New York Times, del suo vice Dick Cheney: “ma chi vuole – pare abbia detto rivolto ai leader repubblicani del Senato – far la fine di Herbert Hoover, ricordato solo per il crac dell’economia nel ’29?” Il che non suona tanto a ravvedimento finale di un neocon, quanto la voglia di lasciare il cerino acceso nelle mani dell’odiato Obama. E così l’ultima idea è di finanziare Gm e Chrysler per il minimo indispensabile, 8 miliardi, sufficiente ad evitare la bancarotta entro San Silvestro. Poi toccherà ai democratici.



Che potrà fare il neo presidente? La strada per la ripresa, a lungo termine, è già tracciata. L’America, per ripartire, dovrà puntare sulle grandi infrastrutture e su uno sforzo epocale per l’ambiente in cui l’industria della mobilità avrà un ruolo centrale, assorbendo una buona parte (inferiore solo a quella per l’edilizia) dei capitali già stanziati, mille miliardi di dollari, per far ripartire l’economia. Perciò si dovrà puntare ad auto “verdi”, cioè a minor consumo, di carburanti “verdi”, non solo etanolo. Il tutto in un quadro di mobilità sostenibile: ferrovie ad alta velocità, massiccia introduzione di tecnologie della comunicazione per evitare gli spostamenti fisici e così via. Ma le soluzioni a lungo termine, si sa, rischiano di dar risultati quando saremo tutti morti. Nel breve occorrono scelte radicali e dolorose.

Si tratta di investire molti quattrini nell’auto, ma di ridurre in parallelo la capacità produttiva. Ovvero, nei prossimi anni si dovrà puntare sulla progettazione, gli esperimenti, lo sviluppo di prodotti e progetti che daranno risultati a termine. Ma nel frattempo si offrirà meno lavoro: alle tute blu (che ci sono abituate) a anche alla rete commerciale (100 mila dealer negli Stati Uniti sono a rischio) e all’immenso indotto dell’auto, diretto ed indiretto. Lo stop alla pubblicità di quattro degli otto marchi di Gm, ad esempio, rischia di essere un colpo mortale per il sistema delle tv locali Usa, che dall’auto traggono circa il 25% delle entrate pubblicitarie.

Problemi di queste dimensioni non si risolvono con la bacchetta magica. Ci vuole pazienza, capacità progettuale, coscienza che per evitare il crash occorre non cadere nella trappola del protezionismo o della guerra industriale a suon di aiuti di Stato. In questo quadro la sortita di Sergio Marchionne su Automotive News appare un contributo prezioso: nel futuro, anche per le vetture dovrà valere il modello Intel Inside (l’etichetta che trovate su quasi tutti pc, attrezzati dai chip del colosso Usa, insidiato solo dalla concorrente Amd in questo segmento di mercato). Ovvero, ci sarà chi si specializza nel produrre il “cuore” di un veicolo (il motore) ma anche il pancreas (i carburatori) o i polmoni (la trasmissione). La maggior parte degli sforzi andrà nel marketing, nella rete di assistenza, nella gestione della mobilità. Vogliano sognare? Invece di comprare un’auto, in futuro, si potrebbe comprare un contratto con una casa automobilistica che, dietro un canone, si impegna a fornire soluzioni di mobilità: la berlina quando c’è bisogno di una macchina per lo spostamento a lunga distanza, la city car durante la settimana e un Suv per la vacanza. È fantascienza (pensate alla logistica necessaria, per esempio…). Ma, se vale il we can, cerchiamo di pensare in grande. Tanto, con le soluzioni tradizionali, più che risolvere i problemi, li si sposta più in là.