Una crisi economica così profonda un risultato lo ha già ottenuto: farci capire che il sistema bancario andava sì aggiornato, ma non stravolto dall’adozione di criteri derivanti dalla “dittatura” di un pensiero del tutto estraneo al nostro modo di concepire lo sviluppo. Idem per le nostre imprese: hanno punti di forza e originalità che tutto il mondo ci invidia. Ma non occorre dare nulla per scontato. L’articolo di Graziano Tarantini inaugura un reportage de ilsussidiario.net nel mondo delle nostre imprese, pilastro dell’economia reale italiana



Sia con un articolo sul Corriere della Sera di venerdì 5 dicembre che in un’intervista rilasciata a ilsussidiario.net martedì 9 dicembre, il professor Quadrio Curzio, con la consueta chiarezza, ha indicato le ragioni per cui l’Italia ha avuto meno contraccolpi dalla crisi. Ne ha individuate tre: la presenza di un sistema bancario in grande prevalenza radicato sul territorio e quindi con una buona base di risparmio interno; la solidità delle famiglie, poco indebitate e spesso proprietarie di un’abitazione finanziata in molti casi con mutui erogati sulla base di criteri prudenziali, per loro e per le banche; da ultimo, i formidabili surplus di commercio estero nel manifatturiero dovuti al tessuto di coesione economico-sociale delle piccole e medie imprese, dei distretti, dei sistemi locali di produzione e dell’imprenditorialità innovativa diffusa. Accanto a questi elementi di positività ha evidenziato quali sono i maggiori pericoli per il nostro Paese; nell’ordine il Sud Italia, il debito pubblico, il deficit energetico.



A tale analisi, che condivido totalmente, vorrei legare alcune riflessioni che mi sembrano di fondamentale importanza. Se i problemi appena elencati richiedono tempo per elaborare soluzioni (anche se noi ce ne stiamo mettendo troppo, osserva Quadrio Curzio), è bene pensare a cosa fare per garantirci la durata di ciò che funziona. Il che significa saper guardare al futuro con lungimiranza, cioè avere il coraggio di cambiare quanto è superato dalla storia, e resistere, nello stesso tempo, alle mode di turno, che troppo spesso sono state alla radice della distruzione di tante cose che funzionavano ma che non sono state difese, soprattutto per una nostra fragilità culturale.



Ad esempio, per stare ai punti virtuosi indicati, c’è da chiedersi come mai ci sia voluta una crisi così profonda per farci capire che il sistema bancario andava sì aggiornato, ma non stravolto dall’adozione di criteri derivanti dalla dittatura di un pensiero unico, del tutto estraneo al nostro modo di concepire lo sviluppo. Nel 2004 avevo denunciato come un grave errore lo smantellamento dei Mediocrediti regionali. Il modello di banca universale, sia pur fatto proprio dal Testo unico bancario del ’93, ha visto tanti istituti di credito rincorrere tutto ciò che la nuova normativa permetteva distraendo energie e risorse dalle loro attività tradizionali.

Spesso si è così finito, da un lato, con lo scimmiottare istituzioni finanziarie estere, e, dall’altro, le realtà di medie dimensioni del nostro Paese non hanno saputo cogliere l’occasione per creare strutture comuni per quelle attività come il risparmio gestito o l’investment banking ad esempio, che richiedevano o la gestione di masse di risparmio significative o una forte specializzazione per poter competere in un mercato sempre più vasto e concorrenziale. Secondo tale logica anche nella finanza ci siamo condannati a diventare semplici distributori di prodotti fatti da altri, spinti da congrue commissioni e desistendo dal tentativo di avere nostre fabbriche-prodotti. Sì, pure nel mondo della carta, come viene definita la finanza, esistono le fabbriche e, quando queste ci sono, creano competenze e capacità di servire in modo più adeguato le economie di riferimento.

Un altro aspetto riguarda le piccole e medie imprese, e quindi il nostro modello economico. Prima ancora di porsi il problema di come aiutarle nella crescita, da non sottovalutare visti gli oggettivi limiti dimensionali che spesso impediscono soprattutto un’adeguata valorizzazione delle persone che vi lavorano, è opportuna una riflessione sulle ragioni della capacità di intrapresa che è nel dna di tanti italiani. Il dato più allarmante oggi, insieme all’incapacità di trasferire la passione imprenditoriale ai figli, è rappresentato da chi vende la propria attività per rifugiarsi nella rendita. Purtroppo gli imprenditori non si costruiscono nelle università; lo si coglie immediatamente quando si parla con loro anziché con un loro manager anche se è uscito dalle migliori scuole di business. Per tale motivo Il Sussidiario vuole iniziare il racconto di questa peculiarità tutta italiana, perché possa diventare un paradigma, un modello da presentare in modo appropriato oltre che nelle università anche ai visitatori dell’Expo 2015, come ipotesi possibile per lo sviluppo di molti paesi. Un’occasione per non sentirci più di serie B, semplicemente perché tali non siamo, e per scoprire un modo nuovo di esportare il made in Italy: insieme ai manufatti occorre portare le ragioni della nostra sensibilità e del nostro amore per la bellezza, che si riflettono anche in un’originalità dei metodi di produzione. Così si comunica una cultura di cui noi per primi, però, dobbiamo riprendere coscienza, non pensando che ci sia data una volta per sempre se non è costantemente coltivata.

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