Quando, nel maggio 1993, entrò in servizio il TGV Parigi-Lilla, la stampa francese diede ampio spazio alla tesi di coloro i quali prevedevano che la nuova arteria avrebbe assorbito una parte consistente del traffico dell’autostrada A1 che collega le due città, distanti circa 200 km.
Su Le Monde del 23 maggio 1993, ad esempio, si poteva leggere: «Nelle ore di punta, il TGV Linea Nord conta di attirare quasi un terzo degli automobilisti. I dirigenti della SNCF confidano molto nel fatto che, essendo autostrada e ferrovia affiancate per la maggior parte del percorso, gli automobilisti potranno percepire la differenza vedendosi superare dai treni che corrono a 300 km/h».
Per contribuire al conseguimento del risultato voluto, durante l’inverno 1993-94 una costosa campagna pubblicitaria mostrò ai telespettatori francesi automobilisti aggrappati al volante e palesemente bloccati in ingorghi sull’autostrada e, per contrasto, passeggeri del TGV che godevano del comfort e della tranquillità di questo piacevole mezzo di trasporto.
Ma la previsione non si avverò: l’introduzione del TGV non ebbe praticamente alcun impatto sul traffico dell’autostrada che corre parallela. Negli scorsi anni la storia si è ripetuta in Italia: nel dicembre 2005 è stata aperta all’esercizio la prima tratta della nuova rete AV, quella fra Roma e Napoli e, nel marzo 2006, in occasione delle Olimpiadi invernali, il segmento della Torino-Milano che congiunge il capoluogo piemontese a Novara. La ricaduta in termini di riduzione del flusso veicolare sulle tratte autostradali affiancate è stata pressoché impercettibile.
Al contrario di quanto viene spesso ripetuto, infatti, il treno, e in particolare i servizi AV, non costituisce una reale alternativa al trasporto su gomma. I mercati sono diversi. La parte largamente maggioritaria degli spostamenti in auto avviene su distanze relativamente brevi, di poche decine di chilometri, mentre gli utenti dell’alta velocità ferroviaria sono coloro che effettuano viaggi di media e lunga percorrenza prevalentemente con origine o destinazione nelle aree centrali delle maggiori aree urbane.
Non sembra quindi essere giustificata la rilevanza strategica che i decisori politici attribuiscono a tale segmento minoritario della mobilità e l’ingente flusso di finanziamenti pubblici ad esso riservato. La collettività, sulla quale grava per intero il costo di realizzazione delle linee AV, non riceve infatti alcun sostanziale beneficio in termini di riduzione della congestione stradale o di emissioni inquinanti.
I soldi di tutti vengono utilizzati per offrire ad un numero limitato di persone, con redditi spesso medio-alti, un servizio di elevato livello qualitativo. È come se i contribuenti venissero tassati per regalare un SUV a pochi fortunati.
Un recente studio di Chris Nash e Gines da Rus dell’Institute for Transport Studies di Leeds, ha tentato di stimare il numero di passeggeri minimo che giustifica la costruzione di una linea ferroviaria AV. Nella più favorevole delle ipotesi, ossia assumendo costi di costruzione molto più bassi di quelli registrati nel nostro Paese, il break-even è raggiunto con un traffico nel primo anno di esercizio pari a sei milioni di passeggeri. In condizioni meno favorevoli, il pareggio fra costi e benefici si otterrebbe con nove milioni di viaggiatori.
Adottando come riferimento tale valore, le uniche linee italiane che potrebbero rappresentare un buon investimento sono la Milano-Bologna e la Bologna-Firenze. Sia la Roma-Napoli (tre milioni di passeggeri a quasi tre anni dall’apertura) che la Torino-Milano (un milione di viaggiatori) non superano invece il test dell’analisi costi-benefici e rappresentano dunque un cattivo utilizzo di risorse scarse. Era meglio non farle. Ormai è tardi.
Si potrebbe però quantomeno imparare dagli errori compiuti ed abbandonare l’inutile progetto della Torino-Lione per il quale il rapporto fra costi (una famiglia di quattro persone pagherà 1.000 euro di tasse per finanziarla) e benefici è ancor più sfavorevole. Ma un ripensamento è assai improbabile. Come ha scritto H. Kissinger: «Quando un ragguardevole prestigio burocratico è stato investito in una politica è più facile vederla fallire che abbandonare».