Il sistema capitalistico è sempre riuscito a ingranare la marcia giusta per lasciarsi alle spalle le secche della recessione. Questa volta però in crisi è finito il modello stesso di capitalismo a causa della sua eccessiva e sempre più complessa contaminazione finanziaria.
Un crollo globale del mercato dagli effetti devastanti, soprattutto sul sistema bancario, e in cui il settore Auto sembra destinato a pagare il prezzo più alto.
I colossi mondiali del settore sono corsi al capezzale del Congresso americano per ottenere aiuti miliardari: una estrema ratio keynesiana che sconfessa anni di benessere e sviluppo propri del libero mercato.
In tale contesto si annota il tracollo di Fiat, costretta a rivedere al ribasso gli obiettivi per il 2009 e a mettere per un mese oltre 50 mila lavoratori in Cassa integrazione. Del resto i conti parlano chiaro: a novembre le vendite sono precipitate del 30%, registrando il dato peggiore degli ultimi 15 anni.
Eppure negli ultimi anni la cura Marchionne aveva permesso a Fiat Auto di uscire dal tunnel, sostanzialmente grazie a due medicine: la liquidità di circa 1,4 miliardi di euro ottenuta da Gm (merito dell’opzione put magistralmente valorizzata da Marchionne) e la capacità di mettere sul mercato modelli finalmente competitivi.
Ora occorre una cura radicalmente diversa per rimettere in moto i bilanci. Se da un lato il Lingotto punta su modelli low cost in Europa e prepara due debutti per il 2009, dall’altro si muove per stringere alleanze internazionali (da segnalare la sponsorizzazione in Ferrari dell’indiana Tata).
Del resto, l’automobile è il simbolo di una sovrapproduzione cronicizzata e il mercato europeo, nord-americano e giapponese è ingolfato di vetture. Se tagliare è necessario, innovare è indispensabile per disegnare il futuro. Nella sola Europa ci sono 200 milioni di auto, di cui 36 milioni si trovano in Italia.
Per poter vendere in questo mercato saturo ci vogliono prototipi capaci di sostituire quelli esistenti. Ma occorrono investimenti ingenti in ricerca, produzione e commercializzazione, a prescindere dai sostegni statali.
Qui sta il punto cruciale: Fiat accusa un relativo divario dimensionale rispetto ai suoi maggiori concorrenti. Basta sfogliare l’album dei ricordi. La perdita di influenza e di quota della Fiat sul mercato automobilistico, in termini percentuali non è un fatto congiunturale, ma un elemento costante nel lungo periodo. Nel 1982 la Fiat aveva il 60% del mercato italiano. Nel 1992 era scesa al 43%. Oggi è intorno al 30%. E a livello mondiale si fanno sentire i crolli della produzione in Argentina, Brasile, Polonia e Turchia.
Non si deve poi dimenticare che il Gruppo Fiat non è solo un’industria automobilistica ma un complesso industriale-finanziario che rappresenta un perno del sistema Italia. Il rischio è che la crisi di Fiat Auto vada oltre il suo modello industriale, ma finisca per impantanarsi nei limiti del capitalismo italiano. La sua scommessa, in una recessione globale, è trovare la strada dell’innovazione Made in Italy da portare in dote in una solida alleanza internazionale.