La cooperazione internazionale per lo sviluppo applica incessantemente nuovi modelli, piani e strategie mirate a intervenire nelle emergenze e – spesso – ad esportare uno stile di vita occidentale in tutto il mondo. La Ong Avsi parte da un punto di vista diverso: l’incontro e la condivisione di persone che condividono il destino facendo insieme un pezzo di strada. Così anche i progetti, i programmi di sostegno o educativi non si basano su modelli asettici e astratti ma si adattano alla cultura locale per farla fiorire e cercare di costruire uno sviluppo e una normalità ilsussidiario.net ha chiesto al Prof. Giulio Sapelli un giudizio sull’efficacia di questo approccio nell’economia dello sviluppo.



Quali sono le caratteristiche per le quali uno sviluppo si può dire veramente tale, completo e non limitato solamente ad alcuni aspetti?

Occorre avere ben chiaro, in primo luogo, la differenza tra crescita economica e sviluppo. Come ho spesso scritto, nelle società avanzate, almeno per quanto riguarda il Pil, vi è una modernizzazione senza sviluppo, una crescita economica che dovrebbe portare, secondo i teorici della modernizzazione, ma io non c’ho mai creduto, ad una deterministica crescita cirolare per la quale aumentano anche l’educazione, la legalità e, soprattutto, la liberazione dell’umano. Invece, ciò che si è visto soprattutto nei paesi della periferia, a crescita economica tardiva, è fondamentalmente la riproduzione dello stesso modello di modernizzazione senza sviluppo dei paesi avanzati, aggravato però da tutti i difetti della arretratezza sociale, della povertà, mettendo così insieme i due svantaggi. Anzi, aggiungendone un terzo, derivante dalla distruzione delle economie locali.



In questo quadro, è possibile identificare differenze nelle modalità di intervento delle ONG e delle  istituzioni statali?

Dipende dalle Ong. Purtroppo vi sono Ong che lavorano come braccio secolare degli Stati, finendo anche per sostenere gli interessi delle oligarchie locali. Vi sono però molte altre Ong, che definirei “leggere”, come provocazione potrei dire che non hanno dei “cappellani del lavoro”, ma dei “preti operai”, cioè della gente che sta lì, lavora lì, come le suore o i Camilliani che ho conosciuto in Africa, che erano lì da 30 o 40 anni. Questo vuol dire condividere il destino di un popolo, guardarlo in faccia, conoscere le economie locali, non isolarle, ma anzi farle vivere.



A questo punto vorrei leggere i punti che costituiscono il metodo di lavoro di Avsi e discuterne insieme. Il primo punto è la centralità della persona, vista come essere unico, irripetibile e irriducibile a qualsiasi categoria sociologica.

Certo, questo corrisponde all’insegnamento di Don Giussani, ma questi sono anche i principi di fondo del personalismo cristiano, che adesso viene riscoperto. Infatti, si tende a porre al centro dello sviluppo la riproducibilità di mondi vitali. Si prenda l’esempio di quelle comunità di villaggio tribali in India che si sono opposte all’installazione nel loro territorio della fabbrica di automobili della Tata. Sono state descritte come persone contro lo sviluppo, dei luddisti, ma non erano affatto tutto questo. Erano semplicemente convinte che il legame con quel tipo di economia, con la proprietà collettiva della terra, fosse un legame personale, che un certo tipo di equilibrio tra risorse e loro uso costituisse una specificità che doveva essere mantenuta.

Da questa osservazione possiamo introdurci al secondo punto di metodo dell’Avsi: partire dal positivo, valorizzare il tessuto umano e l’insieme di esperienze che costituiscono il patrimonio di vita di ogni persona.

Sono perfettamente d’accordo. Mi sembra che questa posizione sia stata descritta al meglio da  Pasolini nel suo magnifico saggio su Paolo VI e i pellerossa, in cui, ricordando il Papa che in un incontro si mise sulla testa la corona di piume di un capo Sioux, disse che vedeva in questo gesto la capacità della Chiesa cattolica di accogliere in sé valori e costumi, senza rinunciare certamente a essere sé stessa. Credo che questa sia un’indicazione non solo per la fede, ma anche per la crescita economica.

Infatti, il terzo punto è: fare con, perché un progetto di sviluppo “calato dall’alto” è violento, in quanto non partecipato, o inefficace e senza futuro, in quanto solo assistenziale.

È del tutto vero. Bisogna stare lì, con le persone, viverci a lungo, bisogna amare le persone: senza amore nei paesi in via di sviluppo non si fa niente.

Passiamo così agli ultimi due punti, la valorizzazione dei corpi intermedi e, quindi, il principio di sussidiarietà, e la partnership con le realtà locali.

Devo dire che è stato lo sviluppo borghese, capitalistico o illuminista, che ha distrutto i corpi intermedi attraverso la centralizzazione. Invece, queste società periferiche sono ricchissime di corpi intermedi, naturali o anche venuti dopo, in questo senso artificiali, ma in cui è sempre essenziale il legame tra le persone.
Infine, da tutto quanto già detto discende l’importanza della parnership. La partnership è in effetti quello che tiene tutto assieme.

Per concludere, il titolo delle Tende Avsi di quest’anno è: Lo sviluppo ha un volto. Cosa sollecita questa frase?

Che tutto ha un volto, le persone con cui e per cui si lavora sono un volto. E il volto può essere solo il volto dell’altro. Con questo si è lungi dal perdere il proprio volto, perché noi siamo definiti dagli altri, è il prossimo che ci definisce. Questo è un valore universale, che occorre insegnare, far capire soprattutto ai giovani.