Quando si è di fronte a una crisi drammatica dei mercati finanziari come quella attuale è ovvio che autorevoli personaggi del mondo politico, accademico e operativo siano indotti a farne un’analisi critica delle cause, stigmatizzando, tra l’altro, con diversa enfasi, il comportamento miope delle autorità di vigilanza d’oltreoceano, la ricerca parossistica del profitto di breve periodo dei banchieri americani soprattutto dell’investment banking senza la dovuta attenzione ai rischi assunti, l’incapacità delle società di rating di prevedere la possibilità d’insorgenza di fattori distorsivi a dir poco catastrofici delle imprese delle quali avevano fornito giudizi apparentemente positivi.
A ciò si aggiungano gli effetti della straordinaria volatilità dei tassi di interesse e dei corsi di Borsa che i modelli matematici di stima e di gestione dei rischi adottati dagli intermediari finanziari non includevano nel calcolo degli algoritmi.
Tra le diverse proposte per uscire dal difficile momento che stiamo vivendo, merita una breve riflessione quella evocata, anche se sottotraccia, che vorrebbe che le nostre banche ritornassero a essere delle istituzioni e cioè che smettessero il carattere di impresa conferito loro dalla vigente legge bancaria, sulla scia delle direttive comunitarie sul credito.
Se questa fosse una provocazione per richiamare l’attenzione sulla necessità che i nostri istituti di credito, soprattutto i più grandi, riprendano a fare soprattutto la classica intermediazione creditizia tra gli operatori in avanzo e quelli in deficit, stando alla larga dalle attività di ingegneria finanziaria che l’esperienza ha mostrato a elevata “tossicità”, il richiamo alla banca come istituzione potrebbe essere giustificato.
Se invece si sottintendesse una nostalgia per l’assetto gestionale e normativo con il quale gli istituti bancari italiani operavano sotto la vecchia legge bancaria del 1936, ossia il ritorno alla specializzazione funzionale, alla vigilanza strutturale, alla preferenza della stabilità sull’efficienza, alla rilevanza secondaria del profitto rispetto ad altre funzioni obiettivo, il rimedio sopra accennato apparirebbe non solo antistorico, ma addirittura peggiore del male che si vorrebbe estirpare.
Senza contare che dovrebbe rimodellarsi anche la forma del mercato bancario, che ormai è globalizzato, riportando le nostre banche, in assenza dello stimolo della concorrenza, a rallentare l’attenzione al contenimento dei costi e, di conseguenza, a perdere di vista il ruolo dell’efficienza gestionale anche a vantaggio dei clienti.
Quindi non si può tornare indietro e anzi c’è da sperare che l’intervento pubblico nel capitale delle nostre banche non mascheri una forma di rinazionalizzazione e sia solo una cura temporanea per salvaguardare il risparmio del pubblico e per evitare il razionamento del credito.
Ma anche con riguardo agli stimoli al finanziamento bancario delle imprese piccole e medie, di cui molto si discorre, occorre fare una chiosa, poiché c’è il rischio di attribuire al credito, come già in passato, il ruolo di variabile indipendente, non collegata a una serie di altri elementi su cui si basano gli investimenti aziendali da incoraggiare.
A questo fine ci viene in aiuto la teoria finanziaria per la quale la massimizzazione degli investimenti di una impresa di produzione in presenza di profitti lordi che si prevede bloccati, esige simultaneamente una bassa propensione all’accumulazione di attività finanziarie (e questo, credo, già nei fatti) e un rafforzamento dell’autofinanziamento.
Non basta perciò creare le condizioni per evitare di interrompere i flussi di credito, ma necessitano misure per agevolare il reinvestimento degli utili anche con una tassazione agevolata che sospinga gli imprenditori a coglierne l’opportunità per il futuro delle loro aziende.