C’è un grande assente nei dibattiti sull’economia, l’impresa, lo sviluppo della società. E’ il lavoro manuale, quella capacità di creare e fare utilizzando mani e forza delle braccia unite all’intelligenza che ha la sua espressione più emblematica nell’artigianato. Un patrimonio che appartiene alla storia del nostro paese e che è stato uno dei motori più formidabili della sua crescita. Tutto questo oggi è inspiegabilmente dimenticato o rimosso. E’ appena uscito in Italia il libro del sociologo americano Richard Sennett, L’uomo artigiano, in cui si denuncia l’impoverimento nell’era moderna sia della tecnica che del talento in seguito al divorzio tra la mano e la testa. Si è radicato un pregiudizio negativo sulla manualità. Basti ricordare quanto sia stato svalutato nell’architettura del nostro sistema scolastico tutto ciò che aveva a che fare con la possibilità di imparare un mestiere. Si è arrivati all’assurdità di considerare una discriminazione classista la formazione professionale. Secondo tale vulgata tutti dovrebbero iscriversi a licei e università. Non imposta se schiere di giovani hanno scelto in massa facoltà fallimentari come scienze della comunicazione trovandosi alla fine il nulla fra le mani. Poi non ho mai capito perché un artigiano non possa essere considerato anche un potenziale lettore di libri, di letteratura per esempio. I genitori dovrebbero riflettere seriamente se non sia più saggio dare ai figli la possibilità di imparare un mestiere anziché lasciare che si trascinino per anni in improbabili percorsi di pseudo-studio.



C’è un esempio paradigmatico di quanto sto dicendo. A Brescia, dove risiedo, a ridosso del centro storico fino a poco più di 20 anni fa sorgevano acciaierie e fabbriche su un’area vasta dove nel passato si era dispiegata la forza di una delle città più industrializzate del Paese. Oggi le industrie non ci sono più, o si sono trasferite altrove. Il loro posto è occupato da un grande centro commerciale chiamato Freccia Rossa con un’affluenza, a otto mesi dall’apertura, peraltro deludente rispetto a complessi analoghi. Nel 2003 in occasione della campagna elettorale per il comune di Brescia, avevo suggerito di seguire piuttosto il modello di importanti città europee in primis Parigi, dove con una politica accorta si era favorito il reinsediamento nel tessuto urbano di botteghe e laboratori artigiani. Un modo intelligente per tenere viva una tradizione di lavoro manuale che ha raggiunto anche punti di vera eccellenza, dal calzolaio al fabbro, dall’artigiano del legno a quello del cuoio. Attività che hanno bisogno di essere ammirate per dare il massimo e che vengono modificate se insediate in anonimi capannoni di periferia. Non se ne fece nulla, o meglio si spalancarono le porte al più classico dei modelli di omologazione sociale e culturale: il centro commerciale dove alimentari, scarpe e vestiti sono uguali a quelli di qualunque altra città. Si annulla ogni diversità e originalità e passivamente ci si rassegna a consumare.



Nel frattempo le cose sono cambiate non solo a Brescia. La realtà ancora una volta si è imposta facendo piazza pulita di tante impalcature artificiali. In questi mesi infatti la crisi mondiale ha dimostrato l’evanescenza di un’economia, non solo della finanza quindi, che con troppa presunzione negli ultimi anni ha sbrigativamente pensato di fare a meno di molte attività ritenute superate. Già negli anni ’80 nelle università si insegnava che el produzioni andavano spostate in paesi a basso costo di manodopera trattenendo qui le attività direzionali come finanza e marketing. Oggi improvvisamente scopriamo, come ricorda Sennett, che chi fa sviluppa anche genio e intelligenza. Forse può essere allora il momento buono per riscoprire il valore di un lavoro come quello manuale dove la persona ridiventa protagonista di ciò che crea.

Pubblicato su L’Arena del 21 dicembre 2008

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