Per capire la crisi che attraversa Fiat, oltre a guardare i dati relativi alle quote di mercato e ai conti economici del gruppo, possiamo anche semplicemente soffermarci su alcune constatazioni che partono dal lato del consumatore e dal modello che avrebbe dovuto segnare la “rinascita” definitiva della casa del Lingotto: la 500.



La terza serie di questa vettura viene prodotta in Polonia grazie anche a una joint venture con Ford. In cambio dell’utilizzo del medesimo stabilimento e dei propulsori, la casa tedesco-americana ha fornito il pianale progettato per la nuova Ka, che entrerà in commercio tra pochi giorni e decisamente in ritardo rispetto alla “sorella” 500.



Ebbene, facendo qualche raffronto sui prezzi delle due citate vetture, scopriamo che il modello base della 500, motorizzata 1.2 a benzina, costa 11.150 euro, mentre la Ka, con lo stesso propulsore, è venduta a 9.750 euro. Da cosa può essere giustificata una differenza di 1.400 euro su vetture identiche dal punto di vista meccanico? Questa domanda cresce ancor più se consideriamo che la versione Titanium della Ka, quella che volgarmente potremmo definire full optional (anche se non lo è) costa comunque 150 euro in meno della 500 base, cui manca, per esempio, un optional irrinunciabile come il climatizzatore.



La risposta alla domanda sopra posta può trovarsi nella diversa qualità degli allestimenti e, ancor più, nel valore del brand. La nuova 500 è certamente lontana da quella vettura che negli anni del boom economico italiano permise a un’intera nazione di muoversi facilmente su quattro ruote. Non è, in altre parole, l’utilitaria a portata di tasche, ovvero quel prodotto che tutte le principali case automobilistiche stanno cercando di offrire ai consumatori.

È solo da poco che il gruppo torinese sta pensando di produrre una vettura in quel famoso segmento “low cost” che, purtroppo per Marchionne, si sta già saturando e dove si stanno affermando altri marchi, primo fra tutti Dacia (costruttore rumeno controllato da Renault).

I più esperti dicono che ormai sia inevitabile per Fiat un’alleanza con un altro costruttore. Certamente lo è, ma potrebbe non bastare. Sono troppi gli errori del passato che il gruppo sta pagando e pagherà ancora.

Innanzitutto la concentrazione di tutti i marchi italiani in unico gruppo. Questo ha eliminato una sana concorrenza già solo sul mercato interno. Si pensi, per esempio, alla rivalità esistente tra Mercedes e Bmw in Germania, tra due città (Monaco e Stoccarda) e due modi di concepire l’auto. Una differenza che in passato esisteva tra Fiat e Alfa Romeo, tra Torino e Milano. Da anni non c’è più e non è un bene, perché la logica del gruppo è evitare sovrapposizioni e “cannibalizzazioni” tra modelli dello stesso segmento.

Un gruppo automobilistico dovrebbe pensare ad alleanze internazionali. E in questo senso è significativa l’esperienza di Volkswagen. Il gruppo tedesco, infatti, non soffre grossa competizione tra i due marchi nazionali (Audi e Volkswagen), avendo scelto differenti strategie di mercato e di diversificazione del prodotto. Inoltre l’acquisizione di Seat e Skoda gli permette di diversificare i propri marchi rispetto alle esigenze dei clienti e, soprattutto, di “presidiare” geograficamente gli stabilimenti (sono presenti in Spagna, Germania e Repubblica Ceca) e i mercati dell’Europa occidentale, orientale e mediterranea.

Inoltre, la forza di un gruppo come quello tedesco sta anche nell’offrire alle classi più basse delle autovetture le conoscenze e le innovazioni portate da quelle più alte. Valga per tutti l’esempio della nuova Seat Ibiza, curata dal punto meccanico-telaistico dai tecnici dell’Audi. In tal senso pensate a che appeal potrebbe avere sul pubblico una Fiat che in alcuni dettagli, motoristici per esempio, fosse curata dalla Ferrari, anziché dall’Abarth! (l’idea è stata lanciata più volte da Berlusconi, senza riscuotere successo, anzi…).

In ogni caso, l’attuale posizionamento non basterà al gruppo tedesco per superare indenne la recessione alle porte, ma gli permetterà di aver vita più facile di quello italiano che, più che pensare a un’aggregazione dovrebbe, a mio avviso, pensare a una sua grande rivoluzione “interna”.

Innanzitutto cedere i marchi Lancia e Alfa Romeo. Marchionne stava riuscendo a fatica a farli marciare e per il 2009 erano previsti nuovi e interessanti modelli. Soprattutto per il Biscione, che ancora può contare su un certo appeal sul pubblico, essendo stata storicamente la casa sportiva nazionale, la prima a correre in Formula 1 e ad aver dato “ospitalità” al genio di Enzo Ferrari.

Un patrimonio che, schiacciato dalle logiche del gruppo, potrebbe essere definitivamente perso. La Mi.To, per esempio, è sì un’auto apprezzabile dal punto di vista estetico e anche tecnico, ma non perfetta per un vero alfista (può sembrare banale, ma la casa del Portello, quando ancora non era nel gruppo, mai si sarebbe sognata di costruire un’auto a trazione anteriore!). L’altra casa di Torino, invece, soffre tremendamente la concorrenza tedesca, essendo nata e caratterizzata dal “viaggiare nel confort e nel lusso”.

Forse sarebbe stato saggio, in tempi passati, lasciare che l’Alfa Romeo passasse nelle mani della Ford, da sempre alla ricerca di un marchio dal sapore sportivo e che, più volte nella storia, cercò addirittura di “cavalcare” il cavallino rampante di Ferrari. Forse non è troppo tardi per accorgersi che “l’italianità” rischia, come nel caso di Alitalia, di trasformarsi in un pericoloso boomerang.

Fiat potrebbe poi decidere di lanciarsi senza esitazioni nel segmento delle vetture low cost e, soprattutto grazie alle partnership instaurate con case cinesi, russe e indiane, potrebbe anche pensare di produrle al di fuori della Penisola. Certo, questo sarebbe un grosso colpo per l’occupazione interna, ma non tutto dovrebbe essere costruito e prodotto all’esterno.

L’eccellenza italiana esiste infatti, oltre che nel design, nel settore dei motori. Fiat è stata la prima casa a montare il common rail sui motori alimentati a gasolio, dando il via alla “rivoluzione” dell’iniezione diretta. Senza dimenticare il twin spark e il boxer dell’Alfa Romeo: motori capaci di trasmettere emozioni sportive al volante. E che dire del tema del rispetto dell’ambiente? Fiat è già in grado di offrire vetture in linea con gli standard Euro 5 (obbligatori dal 2010), a basse emissioni di CO2 e da anni equipaggiate per viaggiare a metano.

In sintesi l’Italia potrebbe benissimo pensare di smettere di essere costruttore e specializzarsi diventando fornitore di componenti e di “stile” per l’auto. Questo sempre che si voglia mantenere il patrimonio italiano automobilistico. L’alternativa è diventare terra di “colonizzazione”. Basta guardare a quello che è successo in Inghilterra, altra terra di tradizione automobilistica, dove i costruttori nazionali sono spariti, e l’isola d’oltremanica è diventata l’avamposto europeo di Toyota. Pensiamoci, o rischiamo di difendere a tutti i costi un fortino che al suo interno può restare senza neanche una moneta d’oro.